Cercando sistemazione nel partito pigliatutti
Democratici L’approdo di Scelta civica. Una questione che è solo politica, nulla a che vedere col vincolo di mandato
Democratici L’approdo di Scelta civica. Una questione che è solo politica, nulla a che vedere col vincolo di mandato
Ho espresso riserve sul recente approdo al Pd di una pattuglia di parlamentari di Scelta civica, come del resto su quello di qualche mese fa di deputati di Sel. Mi preme fugare subito un paio di equivoci. Le mie riserve sono di ordine politico, non morale, né giuridico. Lungi da me giudicare le persone. Né mi sfiora l’idea, evocata da Grillo e dalla Meloni, di introdurre il vincolo di mandato. La non imperatività di esso è un caposaldo delle democrazie liberali. Le riserve, ripeto, sono di natura politica e, al più, di etica pubblica.
Provo a metterle in fila. La prima, la più decisiva, ha a che fare con l’assetto del sistema politico e con il profilo del Pd. Non da oggi mi preoccupa la spinta al bipartitismo (a parole) cui paradossalmente corrisponde l’affossamento del bipolarismo. Ove il Pd occupa il centro del sistema politico in posizione egemonica, circondato da partiti minori e minoritari, di fatto senza competitor. Con un centrodestra disarticolato, una destra lepenista e 5 stelle auto confinatosi in una sterile opposizione. Con una deriva centrista del Pd, in contrasto con il suo statuto originario di partito di centrosinistra nitidamente alternativo al centrodestra. Perché mi pare chiaro l’intento del vertice Pd: accreditare l’immagine di un partito “pigliatutti”.
La seconda ragione: una tale deriva centrista del Pd al modo di “partito unico della nazione” ne altera il profilo e acuisce le tensioni interne al Pd stesso proprio a valle di un passaggio – l’elezione di Mattarella al Quirinale – che ha mostrato come l’unità del Pd propizi un suo positivo protagonismo, una centralità … non centrista. La terza ragione sta nella debolezza della doppia motivazione addotta dai parlamentari di Scelta civica traslocati nel Pd: a) la tesi secondo la quale l’«agenda Monti» sarebbe il programma del Pd, circostanza che non mi risulta, né sul versante della politica economica, né della politica europea, non fosse altro per un cambio di fase, per la proclamata correzione di una linea troppo schiacciata su risanamento e austerità; b) l’insidioso argomento che la loro coerenza starebbe nella coincidenza tra il mandato conferitogli dagli elettori di Scelta civica nel 2013 e la politica del Pd di Renzi sostanzialmente diversa da quella di Bersani. A dire poco una semplificazione.
E comunque, applicando questo criterio, i parlamentari del Pd a guida Bersani eletti nel 2013 dovrebbero loro lasciare il Pd oppure – tesi talvolta sostenuta dalle minoranze critiche della sinistra interna – questi ultimi sarebbero autorizzati, da quello scostamento politico-programmatico, a sentirsi liberi da ogni disciplina di partito e di gruppo. In nome del (diverso) mandato elettorale. Tesi francamente azzardata, che minerebbe la ragion d’essere di un partito e di un gruppo parlamentare. Pensando a qualche “pendolare” che lasciò il Pd e ora vi rientra domando: è buona cosa incoraggiare l’idea che vi si entri e vi si esca a seconda dell’esito dei congressi? Ci sentiremmo di suggerirlo alle attuali minoranze interne al Pd?
Ancora, pur senza evocare la morale personale (in sede politica lo si deve fare con grande parsimonia), non si può ignorare in assoluto, in un tempo come questo, così acutamente segnato dal discredito del ceto politico, una esigenza di etica pubblica. Il dovere di non fornire materia alla facile accusa di opportunismo e trasformismo. E’ difficile non riconoscere una qualche ragione a chi, dal fronte di Scelta civica, ha lamentato la coincidenza con la vigilia del loro congresso. Pur se messa male e forse effettivamente priva di prospettive future, la sigla che li ha portati in parlamento meritava almeno che la decisione dell’abbandono fosse comunicata, socializzata e discussa lì, prima di essere definitivamente assunta. Un simile rilievo circa la contraddittoria tempistica può essere mosso, a maggior ragione, ai parlamentari di Sel, il cui approdo al Pd è coinciso esattamente con l’esplosione della polemica al calor bianco sul jobs act, materia sensibile come poche altre, che ha innescato acutissime tensioni proprio sul fronte di sinistra, interno ed esterno al Pd. Coincidenza che accredita l’idea non già del potenziamento di una positiva forza attrattiva e inclusiva del Pd sugli elettori quanto il messaggio di segmenti del ceto politico in cerca di più sicura sistemazione. Il caso della subitanea candidatura “unitaria” (?) di Gennaro Migliore alla presidenza della Campania, chiaramente patrocinata dai vertici nazionali Pd con la malcelata intenzione di evitare primarie scomode e competitive, certo non giova a smentire quell’impressione.
Considerando che, tra i suddetti parlamentari di Scelta civica, figurano soggetti intestatari di posizioni politiche molto marcate e, diciamo così, con un senso spiccato della propria individualità, forse i vertici Pd avrebbero fatto bene a non celebrarne con troppa enfasi l’ingresso/reingresso. Quasi ci avessero fatto un generoso regalo. Non un buon viatico per cementare il senso di un’appartenenza comune a un partito (una comunità politica, si dice, un po’ retoricamente) nel quale non ci dovrebbero essere figli e figliastri. La parabola evangelica che narra della medesima mercede data dal padrone della vigna agli operai della prima e a quelli dell’ultima ora (Mt, 20) allude all’alterità e all’assoluta gratuità della giustizia divina. Essa poco si attaglia alla politica. E comunque perfino lì si parla appunto di una medesima mercede. Non si narra di tappeti rossi per gli operai (?) dell’ultima ora.
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