In un mese centinaia di case di Gaza nord, abbandonate dai civili in fuga dall’invasione via terra israeliana, sono state date alle fiamme. Bruciate nel corso dell’ultimo mese dai soldati che lì sono presenza fissa. A rivelarlo è stata ieri un’inchiesta del quotidiano israeliano Haaretz. Tutto distrutto, gli edifici e quello che contenevano, gli effetti personali e la vita quotidiana dei suoi abitanti.

HAARETZ ha raccolto le voci di diverse fonti, militari di stanza nella Striscia, molti dei quali non hanno provato a nascondere l’accaduto: tanti i video pubblicati su Tik Tok dove si mostrano mentre istigano le fiamme, immagini accompagnate dalle voci e una «giustificazione», la vendetta per i commilitoni caduti. Una pratica comune, dicono alti ufficiali al quotidiano, gli stessi che hanno dato ordine di incendiare le abitazioni civili.

Sono state scelte sulla base di informazioni di intelligence, ha detto un altro comandante: «Forse c’erano informazioni sul proprietario o forse qualcosa che era stato trovato dentro. Non lo so perché quella casa è stata bruciata», ha detto parlando a poca distanza da uno degli edifici in macerie. «Non bruciamo questa casa, quindi potete divertirvi. Quando ve ne andate, sapete cosa fare», il messaggio lasciato da un’unità a quella successiva, catturato in una fotografia pubblicata online.

L’esercito ha risposto all’inchiesta dicendosi impegnato a indagare. L’obiettivo è impedire il ritorno degli sfollati. Sono tra 144mila e 170mila, secondo la Bbc, gli edifici di Gaza rasi al suolo: dalle bombe, dai bulldozer, ora dagli incendi. Una pratica odiosa, criticata anche dagli Stati uniti che hanno chiesto a Israele di smetterla. Interi quartieri sono di fatto spariti, quello di al-Karama a Gaza City, il campo di Jabaliya, la cittadina di Beit Hanoun.

Una distruzione sistematica e deliberata della vita civile – case, scuole, cliniche, università, infrastrutture – che ha reso Gaza, di fatto, inabitabile. «Domicide», casicidio, lo chiama Haaretz, domandando se anche questo crimine non sia imputabile ai vertici politici che in più di un’occasione hanno invitato a «bruciare e distruggere».

La pratica della privazione si muove su vari livelli, anche quello della gestione degli aiuti. L’Oms denuncia che nel sud di Gaza (casa ormai a tre quarti della popolazione) i bambini hanno a disposizione 1,5-2 litri di acqua al giorno (il 2% del necessario) e che 100mila palestinesi sono «morti, feriti, dispersi e probabilmente morti», dice il direttore Tedros Adhanom Ghebreyesus.

E torna a parlare Philippe Lazzarini, capo dell’Unrwa, l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi privata di 440 milioni di dollari da 13 paesi occidentali: «Se i fondi restano sospesi – ha scritto su X – saremo probabilmente costretti a interrompere le attività entro fine febbraio, non solo a Gaza ma nell’intera regione». Dove vivono, nei campi, oltre cinque milioni di profughi palestinesi e dove è l’Unrwa a fornire servizi essenziali, dalla scuola alla sanità, dalla raccolta dei rifiuti all’atto più politico, il mantenimento in vita dello status di rifugiati.

GLI AIUTI continuano a entrare col contagocce e da una decina di giorni devono superare anche i blocchi di manifestanti israeliani, da Kerem Shalom al porto di Ashdod, contrari alla consegna di sostegno umanitario ai civili di Gaza. Ieri ad Ashdod le immagini peggiori, con manifestanti che perquisivano i camion e gridavano agli autisti arabi «Sono il tuo padrone, tu sei lo schiavo». «Non credo esistano innocenti a Gaza», dice al Guardian la 38enne Rivka, che per protestare – aggiunge – si è presa un giorno di permesso.

In un modo meno truce le stesse cose le dicono i due membri del gabinetto di guerra considerati più «moderati», Benny Gantz e Gadi Eisenkot: starebbe considerando, riporta Channel 12, di limitare ancora di più gli aiuti destinati alla Striscia al fine di indebolire Hamas, «come pressione per costruire un meccanismo differente e sforzo per liberare gli ostaggi». Chissà cosa ne pensa la Corte internazionale di Giustizia, con un numero di uccisi che sfonda quota 27mila.

IERI DAL CAIRO sono giunte novità. Ismail Haniyeh, leader di Hamas, è andato a discutere la proposta di tregua uscita da Parigi: secondo il ministero degli esteri del Qatar, il gruppo avrebbe dato un’iniziale approvazione all’accordo, «una prima conferma positiva». Dettagli non ci sono. Come non c’è ancora una risposta, neppure ufficiosa, da parte israeliana.

Il primo ministro Netanyahu si è concentrato ieri sulle sanzioni (congelamento dei beni negli Stati uniti e divieto di ingresso) imposte dal presidente Biden a quattro coloni responsabili di violenze contro le comunità palestinesi in Cisgiordania e di un omicidio e mai indagati né puniti in Israele. «Un passo drastico», ha detto stizzito Netanyahu. «Sono eroi», il commento lapidario del ministro-colono Ben Gvir.