Toglie il fiato il paesaggio che si ammira dall’ampio terrazzo della palazzina in cui vivono gli Abu Aliya. La campagna punteggiata di alberi d’olivo di Al Mughayyer si estende a perdita d’occhio verso la Valle del Giordano. Il tramonto la rende magica. Da mesi questo pacifico villaggio agricolo nella parte orientale del distretto di Ramallah è diventato un terreno delle scorribande dei coloni israeliani. «Questo è un piccolo paradiso e (i coloni) lo vogliono» ci spiega Nidal, un abitante «l’attacco che abbiamo subito il mese scorso non è stato il primo e non sarà l’ultimo, sappiamo che torneranno».

La terra fertile attira i coloni, impegnati da dopo il 7 ottobre a tenere sotto pressione e ad allontanare prima di tutto i beduini che in piccoli gruppi vivono tra Ramallah e Nablus. A centinaia sono già scappati di fronte a minacce e violenze. Ora nel mirino sono sempre di più i villaggi veri e propri. Le ritorsioni dei coloni ad attacchi palestinesi non sono nuove, ma assumono proporzioni sempre più ampie e violente come avevano già dimostrato quelle del febbraio 2023 ad Huwara (Nablus). Allora furono decine le case e centinaia le auto bruciate, dozzine di negozi vennero devastati, un palestinese fu ucciso, il villaggio non è ancora tornato alla normalità. Da allora è stato un crescendo di raid e intimidazioni violente che, per la prima volta, ha spinto Usa e Unione europea a sanzionare alcuni coloni.

Il cugino di Nidal, Jihad Abu Aliya, 25 anni, è stato ucciso il mese scorso in un blitz ad Al Mughayyer. Il 12 aprile era scomparso un israeliano, Binyamin Ahimeir, di 14 anni, che viveva nell’avamposto coloniale Malachei HaShalom recentemente «legalizzato» da Israele. Quando il giorno successivo polizia ed esercito trovarono il corpo senza vita del ragazzo e lo dichiararono «vittima del terrorismo», la furia dei coloni nelle comunità palestinesi circostanti era in pieno svolgimento.

Un gruppo di armati aveva già raggiunto Al Mughayyer. «All’improvviso abbiamo trovato decine di uomini armati sotto casa» racconta Nidal «ci siamo barricati in casa, abbiamo urlato di andare via, ma loro hanno cominciato a lanciarci pietre e poi a sparare, mentre attaccavano altre case e bruciavano tutte le automobili che avevano davanti». Dal terrazzo i giovani Abu Aliya hanno risposto lanciando sassi a loro volta per allontanare gli aggressori.

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Quindi sono partite le raffiche. «Il primo a cadere sotto i colpi è stato Maher, per fortuna è stato ferito non in modo grave» continua Nidal «poi un proiettile ha colpito all’addome Jihad, abbiamo fatto il possibile per soccorrerlo ma Al Mughayyer in quel momento era un inferno di fiamme, i coloni sparavano in continuazione, le ambulanze sono arrivate qui solo dopo due ore. Per Jihad non c’è stato nulla da fare». Sul terrazzo e le scale ci sono ancora le macchie del suo sangue.

Al Mughayyer è stato uno degli undici centri abitati palestinesi attaccati dai coloni nei giorni successivi all’uccisione di Ahimeir. Hanno sparato, dato fuoco a più di 100 veicoli, danneggiato decine di case e aziende e ucciso centinaia di capi di bestiame. Tra i centri più colpiti Duma, dove già nel 2015 alcuni coloni diedero fuoco a una casa provocando la morte di un bimbo di pochi mesi e dei suoi genitori. A Beitin, vicino a Ramallah, hanno ucciso il diciassettenne Omar Hamed.

I pogrom sono sfociati nell’omicidio a colpi di arma da fuoco di due pastori palestinesi – Abdelrahman Bani Fadel, 30 anni, e Mohammed Bani Jama, 21 – su un terreno di Khirbet al Tawil, a est di Aqraba. Secondo le testimonianze degli abitanti del villaggio, un folto gruppo di coloni con il volto coperto è entrato con una dozzina di mucche su terreni privati palestinesi allo scopo di trasformarli in un’area da pascolo. Quando i due pastori hanno protestato, sono partite le raffiche che li hanno uccisi.

«Qui non esiste alcuna legge. I coloni sono al di sopra della legge», ha commentato un abitante, sottolineando che i soldati israeliani fanno poco o nulla per fermare o contenere i coloni. «Spesso sono dalla loro parte, addirittura li aiutano perché sono essi stessi dei coloni», ha aggiunto. A marzo furono proprio i soldati ad uccidere nella stessa zona un altro pastore palestinese, Fakher Jaber, 43 anni.

Agenti di polizia si sono visti sul luogo delle uccisioni ad Aqraba, in apparenza per raccogliere prove, ma non si è poi saputo di arresti e di sviluppi nelle indagini. Il giornale online +972 scrive che le probabilità che un colono violento sia assicurato alla giustizia, secondo la legge israeliana, sono estremamente basse: «dal 2005, solo il 3% dei fascicoli aperti dalla polizia israeliana per casi riguardanti la violenza dei coloni si è concluso con una condanna».

E con il leader indiscusso dell’estrema destra Itamar Ben Gvir nella posizione di ministro della Sicurezza, la probabilità che coloni vengano processati si è avvicinata allo zero. I palestinesi delle aree rurali della Cisgiordania si sentono come in guerra, al centro di un’offensiva di coloni e soldati israeliani parallela a quella in corso a Gaza. Proseguono inoltre i raid dell’esercito israeliano a Jenin, Nablus, Tulkarem e altre città, ufficialmente contro i combattenti palestinesi, ma si concludono spesso anche con vittime innocenti.

«Siamo di fronte a un cambiamento radicale nelle azioni dei coloni israeliani e le perdite causate dai loro attacchi sono sempre più allarmanti», avverte Abdallah Abu Rahmah, della Commissione per il Muro Palestinese e la Resistenza alla Colonizzazione. Esperti e attivisti collegano l’aumento della violenza contro villaggi e città palestinesi proprio alla proliferazione degli avamposti coloniali. I nuovi outpost collegano gli avamposti esistenti agli insediamenti più grandi, circondando le città e i distretti della Cisgiordania. «Mandano il loro bestiame a distruggere le nostre fattorie, poi arrivano armati. Ci attaccano, ci difendiamo, ma veniamo accusati noi di violenza. Nessuno ci protegge, siamo soli», commenta sconsolato Ghaleb Mayadmeh del comune di Aqraba.