Barcellona, una okupa al potere. «Sarà una rivoluzione»
Ada Colau ha saputo mettere insieme Podemos, Izquierda Unida, i rosso-verdi catalani di Icv e altri movimenti cittadini. Il suo raggruppamento «Barcelona en comú» oggi sarebbe il partito più votato con circa il 26% dei voti
Ada Colau ha saputo mettere insieme Podemos, Izquierda Unida, i rosso-verdi catalani di Icv e altri movimenti cittadini. Il suo raggruppamento «Barcelona en comú» oggi sarebbe il partito più votato con circa il 26% dei voti
Una okupa al potere. Se volessimo trovare un titolo a effetto per le elezioni amministrative in Spagna del 24 maggio su cui si gioca il futuro politico del paese, basterebbe concentrarsi sul fatto che Ada Colau potrebbe diventare sindaco della seconda città spagnola, Barcellona. Colau è diventata famosa dopo essere apparsa in Parlamento due anni fa a difendere la legge di iniziativa popolare, poi affossata dal Pp, che chiedeva una cosa semplice: che alle banche bastasse ritornare in possesso della casa per estinguere il debito dei morosi.
Nel paese della più grande bolla speculativa immobiliare europea, dove, per dire, nel 2005 si costruivano più case che Germania, Francia e Italia assieme e si stimano più di 5 milioni di case vuote, mezzo milione di persone sono state buttate fuori di casa ma mantengono il loro debito con le banche.
E, nel più assoluto disinteresse delle istituzioni, sono state aiutate dalla «Piattaforma vittime del mutuo» (Pah, dalla sigla in spagnolo), nata dalle ceneri del 15M a Barcellona e diffusa in tutto il paese. Che li ha aiutati a affrontare le banche e soprattutto ha dato un tetto, occupando le case vuote delle banche, a migliaia di persone. Colau ne è stata la portavoce e oggi, secondo alcuni sondaggi, la sua Barcelona en comú (Barcellona in comune) sarebbe il partito più votato (con circa il 26% dei voti, contro i 19% dell’attuale sindaco, della democristiana Convergència i Unió e con un consiglio comunale frammentatissimo). L’abbiamo incontrata all’una di notte, instancabile, in chiusura di un comizio alla Barceloneta.
La sua candidatura mette insieme vari frammenti della sinistra: da Podemos, ai rosso-verdi catalani di ICV, a Izquierda Unida, oltre a vari movimenti cittadini. Un’impresa unica forse votata al successo. Come ha fatto?
Viviamo un momento di eccezionalità, e cose impossibili fino a poco tempo fa stanno diventando possibili. Da un lato c’è una truffa chiamata crisi che sta intaccando i diritti fondamentali, un’assenza di democrazia, una corruzione generalizzata, una crisi economica e una crisi politica del paese. Dall’altro, c’è un’eccezionalità in senso positivo: sono già anni che il paese si sta mobilizzando: il 15M, le maree per la sanità e l’educazione, la Pah. Il processo elettorale nasce in questo contesto di «rivoluzione democratica». Dobbiamo esserne orgogliosi: in altri paesi la risposta è stata di tutt’altro segno. Il municipalismo poi è storicamente un luogo di rottura dal basso, dove la politica è più vicina alle persone.
C’entra la città di Barcellona in questo successo?
Barcellona non è una città come le altre. Ma qui c’è una maggioranza sociale progressista, la città è stata pioniera di processi di rottura (si riferisce al periodo repubblicano, ndr) ed è una città dove più che in altri posti si può vincere; di posizioni testimoniali ne esistono già abbastanza. Il primo obiettivo era di mobilizzare quel 50% di astensionisti che non avevano mai partecipato. Aggiungendo sia chi stava facendo politica da tempo, come Icv o Iu, sia i più nuovi, come Podemos. A tutti abbiamo detto la stessa cosa: i cittadini ci chiedono generosità e ampiezza di vedute per dare priorità agli obiettivi.
E il fatto che sia lei a guidare la candidatura ha aiutato più che in altri casi?
Ogni città è una realtà diversa. Qui esiste un tessuto sociale più organizzato che in altre città. La mia figura visibile e di consenso aiuta alla trasversalità e a unire persone diverse. Ma ce ne sono altre meno visibili dei movimenti per la casa, per la povertà energetica, del mondo accademico. Non è un caso che il nostro lavoro abbia ispirato più di 40 altre candidature in altre città di tutta la Spagna.
Mi racconti come avete costruito programmi e liste.
Ci siamo detti che se facevamo questo processo non era solo per mettere altre persone al posto di quelle che ci sono, ma per cambiare il modo di fare politica. E non potevamo aspettare il giorno dopo le elezioni per farlo. Abbiamo puntato sul protagonismo dei cittadini, sulla trasparenza, e sull’indipendenza finanziaria (con una campagna di crowdfunding, ndr).
Tutti quelli che hanno voluto partecipare al processo decisionale sui grandi temi l’hanno potuto fare, senza nessuna «tessera» di Barcelona en comú – che peraltro non esiste. Il primo passo è stato quello di farci «validare» dai cittadini. In piena estate e in poche settimane, abbiamo raccolto 30mila firme per assicurarci di non essere un gruppo di fuori di testa senza nessuno dietro. Poi, in un momento di discredito della politica, abbiamo approvato un codice etico. Da qui è sorta la limitazione del salario, del numero dei mandati, la resa dei conti, la pubblicazione dell’agenda e una serie di cose per eliminare privilegi e cattive pratiche.
A volte persino un po’ demagogiche. Un salario di 2200 euro netti per un sindaco (contro i 12mila dell’attuale) forse è fin troppo basso…
Guardi, oggi come oggi più della metà delle persone a Barcellona ne guadagna meno di mille. E noi stiamo esigendo esemplarità a chi occupa cariche pubbliche.
Anche se evidentemente come candidata alla carica io non ho partecipato a questo dibattito, ne accetto le conclusioni. In generale credo che se partecipano molte persone in una discussione, si impone l’intelligenza collettiva e il senso comune. Se no, non parteciperebbero in tanti e non si sarebbero unite tante nuove persone al progetto. Io stessa, come molti altri, se ci fossero state proposte senza senso o demagogiche non mi sarei prestata.
Continuiamo con il processo di formazione del programma.
Dopo questi passi, abbiamo fatto le primarie e poi il programma, a partire dai gruppi di quartiere dove sono state raccolte più di 2000 proposte che abbiamo diviso per assi programmatici. Un’esperienza incredibile. Centinaia di persone super esperte di mobilità, urbanistica, ecologia, economia. Un livello incredibile di competenza. Più di 5000 persone hanno partecipato alla redazione del programma!
E poi il nostro programma è aperto: la nostra idea è che il programma non si chiuda mai. Dovrà continuare a essere integrato. Quando cominceremo ad applicare le misure, le dovremo valutare e se non funzionano cambiarle. Tutto questo processo deve continuare dopo il 25 maggio.
Che cosa le ha insegnato la Pah?
È l’esperienza da cui ho imparato più di tutte, senza contare la maternità. E sono loro infinitamente grata. La Pah mi ha dimostrato che l’impossibile è possibile. Che la storia di David contro Golia non è mitologia. Che la gente con meno potere e apparentemente più marginalizzata della società, criminalizzata per i suoi debiti, ridicolizzata, se non si arrende e si unisce può muovere le montagne.
Quelli che hanno perso tutto, che si sono uniti, senza rassegnarsi, con enormi sforzi (perché i primi anni sono stati durissimi), mentre tutti ci dicevano che era impossibile affrontare le banche, ce l’hanno fatta. Per me è stata una lezione di vita: l’unica cosa che non otterremo è quella per cui non lottiamo. Magari ci vorrà più o meno tempo, ma qualcosa otterremo. E poi mi ha insegnato l’importanza delle piccole vittorie. Dell’importanza di avere obiettivi ambiziosi, che magari non dipendono solo da noi, ma senza essere massimalisti. Come nel caso di quelli che abbiamo ora: democrazia reale, finirla con la corruzione, riconquistare i diritti sociali, instaurare un’economia giusta. Sapendo qual è la direzione, bisogna mettere obiettivi a corto, medio e lungo termine e accumulare piccole vittorie che dimostrano che una vittoria grande è possibile. È così che si ottengono cose che sembravano impossibili.
Lei ha un figlio di 4 anni. Come vive la conciliazione familiare, e come pensa di poterla migliorare in una città come Barcellona?
Non è facile, la società attuale non è fatta per conciliare, si immagini i periodi elettorali. Personalmente, cerco di trovare il tempo sotto le pietre e ho la fortuna di avere un compagno che mi aiuta. Come città, una cosa molto concreta si può fare dal primo giorno: creare un sigillo di qualità contrattuale che si applichi prima ai 12mila dipendenti del comune e poi a tutte le imprese con cui lavora. Come condizione per lavorare con il comune, ci devono essere salari degni con orari che permettano la conciliazione. Il comune deve essere esemplare e questo cambierebbe molte dinamiche nella città. Oltre al tema degli orari, c’è anche quello dell’incorporazione dei bambini nella vita pubblica, dove dovrebbero avere più protagonismo e più voce.
Nel migliore dei casi dovrete comunque scendere a patti. Con chi lo farete?
I risultati sono molto aperti e con i sondaggi bisogna essere cauti (in un altro sondaggio pubblicato ieri, si dà per vincitore l’attuale sindaco, ndr). Detto questo, se saremo la lista più votata la politica di patti si farà in base a programma, obiettivi, priorità. Scartiamo quindi i popolari e CiU, che incarnano un modello contro cui abbiamo combattuto. In ogni caso, io non posso decidere da sola la politica dei patti. Una volta visti i risultati, decideremo in modo democratico. Di certo, non scenderemo a patti sulle privatizzazioni perché sono contrarie al bene comune e al nostro modo di essere. Sono ottimista, troveremo il modo, anche se dovessimo includere più di un partito.
Il punto è che stiamo facendo bene il processo da prima delle elezioni, e dal 25 maggio speriamo si aggiunga ancora più gente e lo faccia suo. Abbiamo mobilitato moltissima gente per fissare le priorità della politica pubblica, anche gli altri partiti si vedranno obbligati ad ascoltare la voce dei cittadini.
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