Pregevole che un editore internazionale come Pagine d’arte, animato da una redazione entusiasta e concorde, si sia avventurato nel mare magnum della fortuna italiana toccata in sorte a Stefan Zweig, tradotto con continuità nel corso del Novecento e ancora ben rappresentato nel catalogo Adelphi, in quello Medusa o, di recente, fra le scelte coraggiose di Piano B.
Tanto più che, nella collana «Sintomi» (con Emile Gallé, Emilio Tadini e Jean Baudrillard, selezionati da Matteo Bianchi e Carolina Leite) sono state incluse testimonianze rare e praticamente inedite al sud delle Alpi: la novella La collezione invisibile, edita nel 2015 (era apparsa in rivista nel ’25, riproposta fino al ’36, ma da noi presentata soltanto nel ’38 per Sperling & Kupfer) e, adesso, la conferenza Il mistero della creazione artistica (pp. 64, CHF 15.00), pronunciata nel soggiorno statunitense del ’39 quando, apolide e in attesa della cittadinanza britannica, Zweig intraprendeva peregrinazioni interminabili, preannuncio del viaggio che lo avrebbe condotto al suicidio nell’eremitaggio da esule di Petrópolis.
Si tratta di testi diversi per generi e scopi, entrambi però informati – nel rispetto di un gusto non estraneo all’ispirazione dello scrittore – dalla ricercata esperienza del connoisseur e da quella del bibliofilo compulsivo, propense a clins d’oeil e a calembours eruditi. Il primo racconta la storia ambientata in Sassonia di un consigliere per le foreste in pensione, rimasto cieco, la cui raccolta di «splendidi disegni di Rembrandt, accanto alle incisioni di Dürer e Mantegna» è dispersa in segreto dalla famiglia per far fronte alle spese giornaliere, acuite dalla svalutazione del marco; è quindi un’opera che segue la tradizione delle ‘leggende’ zweighiane, trame rarefatte la cui forza dimora nella portata esemplare delle figure e delle tournures narrative. Il secondo invece – frutto brillante della sua felice carriera di oratore – è dedicato a una fideistica disamina dei meccanismi della produzione artistica, osservati attraverso la lente paradossale della criminologia e dei suoi metodi.
Giustamente pertanto i curatori, nel prologo all’ultimo volume, sottolineano quanto tali lavori possano esser pensati nella forma di un ‘ideale prolungamento’ l’uno dell’altro; e così – nell’arco cronologico che li separa – risalta con evidenza in che modo la loro diffusione sia importante soprattutto per il dialogo da questi intrattenuto con la biografia di Zweig, in rapporto alla più ampia conoscenza del suo profilo umano e intellettuale. Scrittore cosmopolita al centro di un’ampia rete di relazioni, dandy salottiero noto per sfoggiare in casa lo chic incontrastato di una divisa tirolese, ebreo ed europeista in tempi in cui entrambe le definizioni imponevano un’esistenza tragica, figura propensa all’economica esposizione di sé in termini di urgente attualità e tuttavia pacifista convinto nel ruolo febbrile di promotore culturale, sodale di Verhaeren e Romain Rolland oltre le ostilità dei mondi francofono e tedesco, Zweig fu anche un accanito raccoglitore di autografi, da Goethe a Baudelaire, da Mozart a Balzac, interprete della propria passione collezionistica per riviste come «Philobiblon», al centro di un mercato che lo portò a sognare l’impresa incompiuta di un catalogo dei tesori posseduti, concepito nella forma di commento a un’ «opera d’arte» autonoma. Non solo: il letterato si adoperò nell’acquisto di grafica, stampe e disegni, sebbene in maniera rapsodica, in investimenti che si costituirono perfino come utili salvacondotti verso la salvezza propria e dei suoi cari (due pregiati fogli di Rembrandt gli servirono, ad esempio, nella fuga dall’Europa per garantirsi una viabile sicurezza al di là dell’oceano).
Alla luce di questi episodi è tanto più significativo che il racconto tradotto da Pagine d’arte faccia il paio, secondo le ricerche di Oliver Matuschek, con un’altra storia breve, mai data alle stampe da Zweig e conservata fra le sue carte, in cui la vicenda della rovina di una collezione di fronte alle dure circostanze della Storia (appunto l’inarrestabile inflazione prebellica) coinvolge un amatore di manoscritti piuttosto che un appassionato di old masters e incisioni: tale osservazione filologica sottolinea infatti dolorosamente la portata autobiografica di entrambi i testi offerti oggi al pubblico italiano, risuonino essi come premonizioni di un destino futuro o in quanto amare prese d’atto di una realtà ineludibile. Lo scrittore sarebbe stato infatti obbligato a disfarsi della propria biblioteca quando, ormai evidente l’ostilità del milieu austriaco a partire dal 1935-’36, la celebre casa di Salisburgo e i beni in essa contenuti gli sarebbero apparsi ostacolo ingombrante per il progetto di approdare a una vita libera dalla minaccia nazista. La vendita, penosa e complessa, si sarebbe protratta per diversi mesi attraverso un’accurata selezione dei pezzi da traslocare, assieme ad un’esistenza intera, verso un domicilio incerto, difficile da determinare. Suona allora drammatico che per il discorso pronunciato a New York, teso ad archiviare le consuetudini compositive alla base dei più disparati capolavori (dalla Marsigliese al Corvo di Poe, dai romanzi di Scott alla musica di Beethoven), il centro ineludibile di qualsiasi incubazione – sia essa l’esito di una via ‘calda’ o ‘fredda’, a seconda del raffinamento subito da ogni sviluppo creativo – risulti quello di una ‘dimora’, di uno ‘studio’, luogo in cui attuare, come in trance, ciascun processo d’esplicazione di un’idea interiore. Nel ’39 infatti al quotidiano di Zweig sembra ormai negata la sacrale quiete di un santuario, spazio di raccoglimento e concentrazione; e così le parole rivolte ad un uditorio statunitense, ancora estraneo al conflitto europeo, contengono il grido silenzioso di uno sradicato, che nel tratteggiare la pratica della scrittura o delle arti belle ‘sub specie criminis’ allude all’estinzione della propria stessa esistenza intellettuale, avvezza ad albergare in una tradizione di lettere e pensiero. Non a caso, a poche settimane dal gesto estremo di Petrópolis, il letterato avrebbe confessato dal Brasile a Felix Braun: «quello che ci manca qui sono amici e libri»