Una sola notizia davvero degna di questo nome è giunta ieri dal Sudafrica: non le pluri-annunciate dimissioni del presidente Jacob Zuma, che alla fine neanche ieri ci sono state, ma il ritrovamento dei (pochi) resti di un bracconiere accanto a un fucile carico, nei pressi del Kruger Park, sul luogo in cui si pensa che il malcapitato sia stato sbranato dai leoni a cui stava dando la caccia.

FATTE LE DEBITE PROPORZIONI, anche Zuma è diventato una sorta di “preda nazionale”, da predatore che era, man mano che si accumulavano accuse di corruzione, tribolazioni politiche e da ultimo la perdita della leadership dell’African national congress. Per provare ad arrestare un’emorragia di consensi senza precedenti nella storia centenaria del partito, i nuovi vertici e il successore Cyril Ramaphosa – che ha da poco sconfitto Nkosazana Dlamini-Zuma nella corsa al potere interno – spingono da tempo per il passo indietro con un anno d’ anticipo rispetto alla scadenza del mandato. Negli ultimi giorni la cosa è stata discussa in termini sempre più realistici e il meeting di ieri del Comitato esecutivo nazionale (Nec) doveva essere quello decisivo. Per tutto il giorno i giornalisti sono rimasti accampati di fronte al St George Hotel di Pretoria e mentre i media sudafricani davano in coro le dimissioni come «questione di ore», il rand – la moneta nazionale – faceva registrare un’impennata al solo pensiero. Era arrivato anche l’ok scontato delle opposizioni allo scioglimento delle camere, quando il portavoce della presidenza, Bongani Ngqulunga, se ne usciva bollando come fake news la storia di un Zuma solitario e finale, in procinto di gettare la spugna.

Pareva aspettarselo Mmusi Maimane, leader della Democratic alliance (Da), che a meeting ancora in corso dichiarava spazientito di non voler più aspettare l’Anc perché l’Anc in questi anni è stato «complice dei misfatti di Zuma». E ancor più Julius Malema, l’iracondo leader dell’Economic Freedom Fighters (Eff), che chiede un nuovo voto di sfiducia in parlamento entro la settimana. E per il quale Zuma e Ramaphosa sono comunque «la stessa cosa».

SUL PRESIDENTE SUDAFRICANO gravano decine di procedimenti ma nessuna condanna. E il suo mancato impeachment l’Alta corte lo ha infine imputato al parlamento, incapace di disegnare un quadro giuridico che consenta di disarcionare il presidente della Repubblica in carica. Ma certo le sue intimità con la potente famiglia Gupra e il gotha del capitalismo rampante sudafricano ne hanno appannato progressivamente l’immagine. Tanto che Ramaphosa, l’ex sindacalista dei minatori che il business delle miniere ha poi reso uno degli uomini più ricchi del Paese, ha avuto gioco facile nell’invocare «un nuovo inizio» e un ritorno ai valori di Mandela – povertà zero – sfruttando l’inizio delle celebrazioni per il centenario della nascita di Madiba.

MA TRA IL DIRE E IL FARE c’è di mezzo il seguito di cui Zuma ancora gode, almeno nel KwaZulu Natal, dove recentemente e non a caso anche il leader locale del partito è rimasto invischiato in un caso di corruzione. In vista di una tornata elettorale in cui l’Anc sembra sì avere ancora un discreto vantaggio sugli altri, ma dove la flessione in atto è altresì chiara e preoccupante, Ramaphosa non può permettersi uno strappo traumatico. Così Zuma resta sospeso, «in condizioni critiche ma stabili», come titolava l’edizione online del Mail&Guardian in serata, quando era ormai chiaro che il vecchio leone non sarebbe finito nel sacco dei suoi avversari neanche stavolta. O comunque non ancora.