Fatto inedito e per certi versi inaudito in Sudafrica, dove da ieri l’ex presidente Jacob Zuma è entrato ufficialmente a far parte della popolazione carceraria nazionale, la seconda più popolosa al mondo, dopo gli Usa, in rapporto al numero di abitanti. Zuma si è consegnato alla polizia nella tarda serata di mercoledì, pochi minuti prima che scadesse l’ultimo termine utile per evitare che andassero a prelevarlo nella sua residenza “rurale” di Nkandla, nella provincia-roccaforte del KwaZulu Natal, da giorni meta di centinaia di sostenitori che attendevano solo un suo ordine per trasformarsi in scudi umani.

Ieri mattina invece è stato formalizzato l’arresto e l’ex capo di Stato è stato trasferito all’Estcourt Correctional Centre di Durban, dove dovrebbe scontare i 15 mesi di reclusione che gli ha inflitto la Corte costituzionale per non essersi presentato davanti ai giudici di Pietermaritzburg che indagano su alcune delle tante corruzioni e malversazioni di cui Zuma sarebbe macchiato (18 i processi in cui è coinvolto) negli anni della sua presidenza (2009-2018).

Oggi che è sull’orlo degli 80 anni, in condizioni di salute precarie e senza alcuna velleità di fuga, come ripetono i suoi avvocati, l’ex presidente si è giocato ogni carta per evitare questa umiliazione. E a un certo punto è sembrato lasciarsi tentare anche dal muro contro muro, confortato dall’abbraccio della sua gente. Evidentemente la perentoria mediazione condotta da alti esponenti dell’African National Congress, mentre la tensione cresceva, lo hanno portato a riflettere sulle conseguenze di un’eventuale esplosione di violenza fomentata dal suo rifiuto di accettare il carcere. Con il rischio peraltro di una nuova “etnicizzazione” a tinte zulu dello scontro politico in atto anche all’interno del partito che Zuma ha guidato dal 2007 al 2017, totalizzando un’emorragia di consensi senza precedenti, parallela al declino della sua immagine presidenziale.

È una «condanna senza processo», ripete lui, ma il cambio di registro è evidente. Pur nell’amara, clamorosa constatazione di essere stato trattato meglio dal regime dell’apartheid in quanto a diritti costituzionali. Parole grosse in linea con il tweet con cui la figlia, Dudu Zuma-Sambudla, ieri ironizzava: «Ora spera che gli diano la stessa tuta che aveva a Robben Island».

 

 

Ma Jacob Zuma, l’eroe della lotta di liberazione che ha condiviso per un decennio la prigionia con Mandela, non è diventato da un giorno all’altro il primo ex capo di Stato a finire in carcere. Quando fu eletto doveva riportare con la sua verve sanguigna l’Anc tra la gente, dopo l’algida presidenza di Thabo Mbeki… Ma nei due mandati avuti a disposizione poco ha inciso sulle mostruose disuguaglianze sociali sudafricane, preferendo gestire con estrema disinvoltura la cosa pubblica e stringere legami pericolosi con la potente famiglia di imprenditori originari dell’India, i Gupta. Ora riparati si dice a Dubai, tanto che il governo sudafricano spera di acciuffarli dopo la recente firma di un trattato di estradizione con gli Emirati arabi uniti.

Il ministro della Giustizia Ronald Lamola assicura che Zuma sarà trattato «in base alla legge, come qualsiasi altro prigioniero, con dignità ma senza favoritismi» e che resterà in carcere per almeno un terzo della pena, lasciando intendere che tra 4-5 mesi potrebbero essergli accordati gli arresti domiciliari. Ma già il prossimo 12 luglio la Corte costituzionale potrebbe decidere di accogliere la richiesta di revoca dell’ordine di detenzione inoltrata dai suoi legali. Per ora gli toccherebbero 14 giorni di isolamento, come tutti, in base al regolamento anti-Covid 19. Ma questo, ha aggiunto Lamola, non deve essere un momento di «celebrazioni e trionfalismi» quanto di «moderazione e umanità».