Psicopatologia da una scuola quotidiana. Istituto superiore professionale. Visioni che si infrangono su sbarre e muri; corridoi come passaggi minati, traiettorie caotiche di esseri apparentemente umani (ancora per quanto?): studenti, personale Ata, personale docente – nella versione di ruolo, o in quella fantasmatica prodotta dalla precarietà migrante – “personale telefonico-portatile”, dirigente, collaboratrice della dirigente, eventualmente un dobermann nella telecamera a circuito chiuso, una sola psicologa (!), e aria gelida sbattuta in faccia da un inverno del nord Italia. Manco a dirlo, piove. A ogni goccia di frustrazione iniettata in vena di uno dei protagonisti può corrispondere il veleno di una sopraffazione uguale e contraria. Anzi no, peggiore. “I piranha non dubitano della bontà delle proprie azioni” (ci inchioda Szymborska). Sebbene non ricorrano a psicofarmaci e cocaina. Che sia da parte di una docente dare a due ragazzi dei “minorati mentali” per poi farli condannare alla bocciatura se reagiscono, o ancora umiliare il collega del sostegno, imponendogli, ottuse schede valutative, o ancora di un altro professore, ricattare sessualmente uno studente con il cellulare che gli ha appena sequestrato … fino a quando questo sostrato debordante di misfatti si tratterrà dall’esondare in tutta la sua virulenza di crimini non più nascondibili? (E cosa proveremo noi allora, innanzi a questo labirinto di sistema che crolla – fino all’ultima autoassolutoria etichetta della “buona scuola” – dove ci rifletteremo in questo puzzle di specchi vittima-carnefice, dove posizioneremo i confini tra sacrosanta reattività e distruttiva cancellazione dell’altro?). E poi. Fino a quando ci sarà qualcuno a resistere a tutto questo, ad agire correttamente la propria professionalità nei confronti del ragazzo disabile – quello del sostegno uno degli snodi più delicati e cruciali – a opporsi ai deviati usi del potere del collegio docenti, a difendere i ragazzi dalla loro stessa inconsapevolezza (che vuoi che sia ripetere un anno, prof?), dal loro filtrare anche la morte violenta dallo scafandro del telefonino, senza sentire nulla col corpo e con gli occhi?

Sono stranianti suggestioni da Zooschool, primo magmatico coraggioso lungometraggio di Andrea Tomaselli, una visionarietà che coinvolge innanzitutto per il suo scaturire da una esperienza diretta di docenza (il set, lo stesso istituto di Settimo Torinese dove il regista insegna), l’esito di 6 anni di ricerca sbattimento gioie tra i meandri sanamente imperfetti del cinema a bassissimo budget.

“La scuola caro, è indispensabile. Senza di essa l’uomo crescerebbe in preda agli istinti, che sono cattivi, e soprattutto al più terribile di essi che è l’istinto della libertà. Tu vuoi essere libero?”. Si legge in un dialogo censurato di Sandro Bajini, datato 1961…

Interrogandoci su cinema scuola e libertà, abbiamo invitato Andrea Tomaselli a conversare.

In che modo il tuo luogo di lavoro come insegnante è diventato anche quello come regista.

Decisivo è stato un romanzo, Control, che ho ultimato nel 2009. Volevo fare il punto sui miei primi anni di esperienza come docente. Ci tengo ad adoperare questa parola, perché Danilo Dolci che considero il mio maestro, ci faceva riflettere su come il sostantivo “insegnante”, che più spesso usiamo, significhi fare un segno sull’alunno, sempre lo stesso su ognunoa, dunque producendo passività e omologazione. Invece “docente” è chi è capace di tirare fuori maieuticamente le nostre risorse individuali, uniche. Control lo hanno letto diverse persone e lo hanno subito percepito come un film …

Zooschool mi ha toccato per la sua ruvidezza ben poco consolatoria. Come hai lavorato sul filo di queste psicopatologie pronte a debordare?

Amo frequentare i territori al confine tra “normalità” e “follia”. Di recente, sulla piattaforma Feltrinelli ho pubblicato un racconto su un padre che ha cresciuto figlio e figlia nella convinzione che fuori imperi la peste, motivo per cui tiene entrambi sequestrati in una casa di campagna… Ecco, in questo caso ho indagato le paure genitoriali, ma più in generale credo che la nostra società apparentemente civile ed evoluta si fondi su presupposti vicinissimi alla follia. Anni fa, tra quei volumetti a mille lire, uscì il libercolo di Papalagi, un samoano in viaggio per l’Europa ai primi del ‘900. Le nostre città gli apparivano come un enorme manicomio …

E la scuola?

È l’ambiente in cui lavoro, che amo, però sono conscio di quanto in realtà sia l’istituzione della follia dentro la follia. Partiamo dal presupposto che è un luogo dove i ragazzi sono costretti a fare qualcosa che non vogliono. Quando la scuola è nata nel Medioevo, la gente voleva fortemente imparare (dal latino “studēre”, desiderare). All’origine c’era un desiderio immane di conoscere, che siamo riusciti a trasformare nell’esatto opposto. Abbiamo una scuola vecchissima. Ma la cosa più grave è che nei libri dei pedagogisti ci sono già da tempo tutte le risposte. Come se i medici avessero pubblicato come si fa la colonscopia o l’ecodoppler e nessuno li usasse.

E le storie che racconti in Zooschool in particolare da dove muovono?

Le reazioni estreme di uno dei personaggi si rifanno a fatti accaduti in una scuola tedesca. Ma anche gli altri rami che compongono il film sono ispirati da vicende che ho conosciuto direttamente o che mi hanno raccontato dei colleghi. L’episodio dei ragazzi bocciati perché si erano permessi di dire a un docente che non sapeva insegnare è qualcosa cui ho assistito e su cui ho masticato amaro per anni.

Dal film arriva forte il sadismo che impregna i rapporti tra studenti e professori e tra i docenti (citi il buddismo di Nichiren Daishonin). Quanto questa rete distorta si fonda sull’indifferenza/ connivenza di larga parte della società?

Se si continua a essere compressi in quella che è spacciata come normalità, la violenza è sempre pronta a deflagrare: non solo quella fisica, la più eclatante, ma quella psicologica e verbale, che è causa di mutilazioni psichiche e automutilazioni e che non viene mai denunciata perché è parte integrante della nostra società. La trovi negli ambienti di lavoro, nelle famiglie, e la trovi dentro la scuola, cosa assolutamente normale. Tutte le persone cui facevo leggere la sceneggiatura, tutte, mi dicevano, mi ha ricordato quel professore che ha eroso anni della mia vita. Ecco, dobbiamo operare prima che si inneschi tutto questo.

Che cosa significa cinema horror per te, e come lo hai interpretato in Zooschool.

Una delle scommesse è stata quella di mettere accanto due orrori, quello visivo del corpo insanguinato e quello psico-sociale più strisciante. Volevamo far rabbrividire lo spettatore più di quanto non gli capiti con un certo horror che in realtà lo anestetizza. Per me “horror” è Rosemary’s Baby di Polanski, non tanto cinema dagli anni ’80 in poi. Una montatrice inglese ha parlato di Zooschool come di un “social horror”, visione cui mi sento vicino.

Quali riferimenti nel mare della “cinematografia-Zero in condotta” hai avuto in testa.

Mi sembrava mancasse un certo sguardo. Certo, c’era Elephant di Gus Van Sant, ma era un film troppo importante e lo abbiamo rivisto solo per evitare la tentazione di “rifarlo”. In seguito, ho scoperto Afterschool, che mi ha attratto. Mi ha ispirato anche l’atmosfera di Quel pomeriggio di un giorno da cani di Pollack, che comincia come un film d’azione e poi si apre a una denuncia sulla società americana, a un clima esasperato, al confine tra grottesco e verosimile. Qualcosa su cui abbiamo lavorato con gli attori, ricercando una misura tra realismo e finzione abbastanza dichiarata.

A cosa pensi se ti dico ‘blu’.

È il colore dominante del finale, della violenza ultima. Con questi toni freddi volevamo rendere il cadaverico e il metallico, l’essere fuori dalla vita senza più possibilità di schiarite. Tutto il resto sono colori caldi, a produrre una sorta di struggimento verso quello che nel cinema si chiama “stato di grazia apparente”, un tempo in cui ci si poteva ancora salvare.
Il corpo è uno dei luoghi in rovina del film.

Sento fortemente il dualismo cristiano di cui è impregnata la nostra cultura e avverto una pulsione a recuperare l’unione di carne e idea. Il mio è uno sguardo di pietà verso quel corpo che è continuamente svilito violato negato costretto al dimagrimento, ma anche un rammarico nei confronti di me stesso, di una parte della mia vita, una ferita che inevitabilmente viene fuori.