Ora l’Iran ammette l’abbattimento del Boeing che ha provocato la morte di 176 civili anch’essi iraniani, molti con doppia nazionalità. Dopo l’intervento della guida suprema Khamenei che aveva chiesto «una indagine onesta e la verità» erano state consegnate a Kiev le scatole nere, e ora l’ammissione: «È stato un errore». Rialzano la voce sui duri del regime sotto tiro per l’assassinio di Soleimani, i moderati come il ministro degli esteri Zarif e e il premier Rohani che accusano: «I colpevoli pagheranno» e definiscono «imperdonabile» l’abbattimento. È quasi una resa dei conti. Anche perché è una specie di auto-bombardamento, per ora molto più pesante in termini di sangue di ogni ritorsione possibile che poteva arrivare da Trump.
Così, mentre il potere a Teheran anche per effetto dell’abbattimento del Boeing è sotto accusa e torna in piazza la protesta studentesca perfino al grido «Khamenei vattene», a Washington lo psycho presidente canta vittoria su tutti i fronti e mette in un angolo la timida protesta dei democratici, quasi archiviando il voto sul veto ai poteri di guerra presidenziali.

È lo stesso Trump del quale non riusciamo a dimenticare il ghigno furbastro, quando dopo avere annunciato dure risposte all’attacco pur “telefonato” dei missili iraniani contro la base in Iraq, ha detto con smorfia malcelata: «Qualcuno si è sbagliato», parlando del disastro del Boeing. Era quasi sorridente lo staff militare che gli stava intorno Casa bianca.

In un colpo solo, dopo l’uccisione di Soleimani, la risposta di Teheran – con tanto di informazione a Iraq e Usa del lancio dei missili – era senza vittime americane e allo stesso tempo gli iraniani si sono colpiti da soli «per errore». Poi ieri la verità e la sequela di orrore mediatico, non bastasse quello vero, che mette sotto accusa la sola «barbarie» iraniana che abbatte un aereo civile. Quasi a voler dimenticare che la gerarchia della guerra, nella fattispecie americana, ha passate e presenti responsabilità – anche perché uccidere Soleimani, il numero 2 iraniano e leader in pectore del Paese, vuol dire dichiarare guerra all’Iran e di fatto dichiararla «zona di guerra». E poi come si può dimenticare l’abbattimento di un aereo civile iraniano con 290 persone a bordo (66 erano bambini) sui cieli dello stretto di Hormuz da parte di due missili della nave Vincennes nel 1988 contro quello che «per errore» l’aviazione Usa definiva un aereo militare. Nelle parole del presidente Ronald Reagan era stato «un atto di autodifesa verso quello che si credeva fosse un aereo militare iraniano», anche allora in una zona di guerra, dichiarata tale da Washington che contro lo «Stato canaglia» avevano armato l’allora «nostro» Saddam Hussein.

Uno stile, non dell’errore ma dell’«orrore umano» per il qualenon c’è giustificazione che tenga, ma che a quanto pare viene fatto proprio anche dai militari e dai pasdaran di Teheran. Perché quell’aereo o è stato scambiato per un inizio di raid aerei Usa contro obiettivi nella capitale iraniana; oppure – peggio e davvero sarebbe molto più criminale – è stato abbattuto perché tornando in difficoltà di volo all’aeroporto di partenza, rischiava di precipitare mettendo a repentaglio obiettivi militari sensibili. Ecco che si riaprono troppe «zone di guerra» nella crisi iniziata con la scellerata eliminazione di Soleimani, l’uomo che ha guidato la campagna contro l’Isis in Siria e già interlocutore per gli stessi Stati uniti in molte aree di conflitto come l’Afghanistan. Senza dimenticare l’Iraq e la Siria dove non è ancora finita: ora a Baghdad manifestano perché vogliono un Paese non più sotto il gioco di Stati uniti e Iran; a Idlib invece Stato islamico e al-Qaeda festeggiano l’uccisione di Soleimani.
Non esistono più, se mai sono esistiti, obiettivi solo militari nella guerra. Nella modernità, almeno a partire dalla guerra civile americana, il poeta e scrittore Herman Melville testimoniò l’invenzione di cannoni e bombe al solo scopo di incendiare le città. Tantopiù con la nuova guerra hi-tech con protagonisti computer e droni. Del resto le guerre «umanitarie» occidentali hanno avuto come scopo non dichiarato – è bastato chiamare le vittime civili «effetti collaterali» – di terrorizzare le popolazioni, trasformarle in fuggiaschi, spingerle a rivoltarsi e così isolare politicamente i governi nemici.

La «zona di guerra»nella globalizzazione dei conflitti trova una sanguinosa legittimità. Le consuetudini civili, la vita di tutti i giorni, le vie sotto casa e perfino il divertimento – a Teheran così si devono sentirsi anche grazie a Trump – in città, paesi e coste dove brulicano micidiali basi militari nascoste da parchi e boschi, sono a nostra insaputa da tempo diventate zone di guerra. Varrebbe la pena o no lavorare per la costruzione di «zone di pace»?