Vale la pena cominciare dalla coda, provando a dire del «multispecie» di un femminismo queer e radicalmente intersezionale in cui la pratica del «fare mondo» è un «divenire-con» gli animali. Nel suo Bestiario Haraway. Per un femminismo multispecie (Mimesis, pp. 228, euro 20), Federica Timeto rilegge Donna Haraway gettando lo sguardo oltre i confini della specie, segnati da scienziati e colonizzatori che scrivevano la propria identità differenziandosi prima dagli animali e poi allungando la catena dello sfruttamento su altri corpi, attraverso il genere e la razza.

STORICAMENTE, il bestiario ha la funzione di registrare le differenze, ordinare, rappresentare un catalogo di risorse, oggetti muti e passivi, a disposizione dell’uomo – e non di qualunque animale-umano. Questo bestiario, invece, è scritto proprio dove sono stati spinti piccioni, microbi, scimmioni, piovre, topi, gatti, ma perfino i più docili cani, «presso i margini trafficati da molti significati».
Per rinunciare al desiderio di appropriazione dell’altra – animale, colonizzata – Timeto elabora ulteriormente la critica allo specismo, come «rappresentazionalismo»: il civile rito di prendere parola per l’altra. I suoi animali sono già presenti lungo tutto il corso della riflessione della biologa ed epistemologa californiana, mai come metafore, piuttosto figurazioni di una «testimone modesta», che non è alla ricerca della verità scientifica neutrale, tutt’altro che ingenua.
Questo lavoro di «diffrazione» è supportato dalle splendide illustrazioni di Silvia Giambrone che, come in ogni bestiario che si rispetti così come in molti dei testi di Haraway, introducono l’animale in un altro habitat immaginario, nel contesto in cui dobbiamo ri-territorializzarci per figurarlo a partire dalla coscienza di sé e dalle relazioni di potere che lo riguardano.
Le «specie compagne» e quelle abiette, così come tutto ciò che si intreccia a livello microbiotico per permettere la vita, accompagnano nel ricostruire la trama del pensiero harawayano, in cui l’umano è tolto dal centro dei temi che riguardano femminismo, biopolitica, tecnologie, ecologia e giustizia sociale, «non solo per immaginare ma anche praticare le forme di convivenza non identitaria già annunciate dalle promesse operative della cyborg»; un’urgenza in questi tempi di pandemia, crisi ecologica e di proliferazione tecnologica.
Al centro di questa teoria critica con le «specie compagne» c’è la questione delle relazioni che implicano necessariamente l’altra in una genealogia che ricostruisce «oddkin» (parentele radicali) nel comune dell’esperienza vissuta, nella relazionalità necessaria per la co-evoluzione.

I FILI DI QUESTA RELAZIONE sono viscosi come la trama della ragnatela, che con cura registra la vibrazione, le intensità e ingarbuglia questioni che riguardano i corpi, l’economia, la guerra, il colonialismo e la sua resistenza.
A «intorbidire le rappresentazioni dell’umano» compare la cyborg, come sorella minore di una famiglia queer di specie compagne, «assemblaggio naturalculturale» in cui l’enfasi è posta sulla potenza che sta nella relazione, anche con la macchina. Ma se le potenzialità produttive – nominate come «artefattualismo» – liberano gli animali e la macchina dalla strumentalità passiva a cui sono stati relegati dal pensiero occidentale, come si costruisce pensiero e pratica con ciò che non abita né la pura natura, ma neanche la cultura come dominio dell’umano? È in questo altrove che i «referenti assenti», macchinici e animali, producono interrogativi su quale sia il posto di chi fa ricerca e politica, per trovare «zone di contatto», altri linguaggi e un approccio intersezionale più ampio e co(i)mplicato.

SONO INFINE LE CAMILLE, bebé del compost che si ibridano con le specie a rischio in un esercizio di fantascienza della stessa Haraway, a declinare in termini di giustizia riproduttiva femminista multispecie, in cui i rifugiati non sono solo umani, a richiedere «ogni volta il posizionamento dei nati, come dei mai nati, dei forzatamente vivi, dei morti e degli scomparsi». Tema, per altro, su cui Timeto apre la dialettica più delicata con la sua referente, invitandola a posizionarsi, riconoscendone generosamente la complessità del suo posizionamento, ma anche distaccandosene in parte.
Il bestiario, infatti, è la restituzione di un lungo dialogo che Timeto ha condotto in un incontro appassionato: parte avviene in presenza, con una preziosa intervista inedita; l’altra viene attivata dai testi harawayani che si fanno presenti in una lingua che produce, traduce, ri-traduce a volte non traduce per restituirne la complessità del pensiero.
La passione militante che muove l’intera ricerca è presto tradotta in pratica grazie ad una raccolta fondi su Produzioni dal basso che permette di acquistare una copia del libro e allo stesso tempo sostenere l’esperienza di Agripunk, un rifugio sociale antispecista (https://www.produzionidalbasso.com/project/bestiario-haraway-per-agripunk/).