Ha scritto Carmine Abate ne Il Ballo Tondo: «Guidato dalla mano del destino, Scandenberg apre una via d’uscita, sia pur dolorosa, alla propria gente, che alla sua morte, sconfitta dai turchi, preferirà vivere in terra straniera, ma libera piuttosto che schiava in casa propria». Gente fiera, questi arbrèshe, narrati da Abate in tanti suoi romanzi. Così orgogliosi da non tollerare soprusi, da non accettare imposizioni, da ribellarsi a prevaricazioni. Come Scandenberg, mito secolare per la comunità.

Abusivamente

Può declinarsi in freddo burocratese come «delocalizzazione», oppure nel più moderno british come «new town». Ma agli abitanti di Cavallerizzo di Cerzeto, borgo arbrèshe di duemila anime, affacciato sulle alture cosentine a 500 metri di quota, questa parola non è proprio andata giù. Mai e poi mai. Da quel lontano 7 marzo di otto anni fa Cavallerizzo è una frazione di pura malinconia. Un pugno di case antiche e spettrali, abitate solo nei mesti ricordi di chi ci viveva. Una frana, quella notte, inghiottì, infatti, una parte dell’abitato. E il sindaco ne ordinò lo sgombero coatto. Lo sfaldamento ha costretto decine di abitanti a ricostruirsi la vita altrove. La loro casa è ora nella «new town», neologismo dell’allora Capo dipartimento della Protezione Civile, Guido Bertolaso.

Dietro l’inglesismo si è celata una deportazione di massa. Malgrado il centro storico fosse perlopiù intatto si è battuta la strada della costruzione di un villaggio moderno ma lunare, algido e senza storia. Settanta milioni buttati per un agglomerato «abusivo». Perché al progetto «manca la Valutazione di impatto ambientale». Così ha disposto qualche settimana fa il Consiglio di Stato sul ricorso presentato dall’associazione «Cavallerizzo Vive-Kajverici Rron». La quarta sezione di Palazzo Spada ha accolto le domande di chi da otto lunghi anni non si è mai arreso. Ma ha resistito. Per tigna e con coraggio. Ma anche per dignità. Contro questo folle progetto di delocalizzazione. I ricorrenti hanno fatto sempre notare che la rovinosa frana ha colpito solo l’11,5 per cento del paese, lasciando intatta la parte restante. E nel nuovo paese è abitato soltanto il 30 per cento degli appartamenti costruiti dalla Protezione Civile. Molte le case in vendita o con i cartelli affittasi mentre altre abitazioni sono in stato di degrado. Il vecchio borgo, invece, vive ancora. Per merito di chi quotidianamente vi si reca per tener pulite e funzionanti le antiche case. Festeggiano gli abitanti ma trema il Consorzio Centro Italia S.p.a., nell’orbita del Gruppo Anemone. Quelli della famigerata cricca, insomma.

Un’oliata organizzazione di imprenditori e tecnici esperta nelle gestione di commesse, aggiudicate con procedura d’urgenza e gare ad invito. Appalti milionari, ottenuti grazie ai Nos (Nulla osta sicurezza). Un florido business, ben inserito anche nelle ricche commesse legate alla Protezione Civile. Un carrozzone dove primeggiava chi poteva offrire di più al politico o al funzionario statale. Un romanzo immobiliare di appalti da assegnare, di eventi da organizzare, di emergenze da gestire. Una shock economy all’amatriciana in cui un manipolo di funzionari aveva in mano le chiavi del comando su delega del governo di turno. E che ha segnato l’irresistibile ascesa del palazzinaro della Salaria: Diego Anemone da Settebagni. Dai lavori per il G8 della Maddalena ai Mondiali di Nuoto, dalle opere per i 150 anni dell’Unità d’Italia ai lavori di ricostruzione di San Giuliano di Puglia. Fino alle new town dell’Aquila. E di Cavallerizzo di Cerzeto.

Vietato vivere

Il cancello che delimita la zona rossa, è spalancato. In un rovente pomeriggio di tre anni fa, era presidiato daIcarabinieri che impedivano ai cavallerizzani indignati di varcarlo. Oggi l’antico borgo sembra quasi un paese normale. Le strade sono pulite, i muri intatti e senza crepe. Gli abitanti che fanno riferimento all’associazione «Cavallerizzo Vive-Kajverici Rron», ti vengono incontro per offrirti un superbo bicchierino di novello. Persino la statua di San Giorgio è tornata nella chiesa centrale, che non è mai stata sconsacrata. Riuscirà il santo a cavallo, abituato ad infilzare il demonio, a sconfiggere i potenti interessi economici che hanno desertificato questo paese? Per il momento, il «miracolo» avviene soltanto ad intermittenza. Ogni estate decine di famiglie tornano ad abitare qui, pur essendo un luogo privo di servizi, acqua corrente ed energia elettrica. Negli altri mesi, custodi di queste case restano gli anziani irriducibili e qualche giovane volenteroso. Clandestini a casa propria! Appena rimettono piede nelle rispettive abitazioni, anche solo per un istante, vengono denunciati.

L’ordinanza vieta di entrare in paese. Donna Liliana è una signora dall’intelligenza vivace. Non usa giri di parole per descrivere la sua condizione. Da due anni vive insieme al figlio all’interno della zona rossa. Non teme le conseguenze giudiziarie: «Ho rotto cinque lucchetti. I nostri amministratori sono burattini nelle mani dei vertici della Protezione Civile. Loro hanno voluto la delocalizzazione. C’erano tanti soldi a disposizione. Ne hanno distribuito un po’ per chiudere la bocca a qualcuno. Anche molti dei ricercatori e degli esperti venuti qui a dirci di essere dalla nostra parte, si sono rivelati dei corrotti. Parlano, scrivono, consegnano dei progetti, ma non lo fanno per una causa giusta. A quelli – spiega Donna Liliana – interessano soltanto i fondi pubblici. Ho chiesto all’Enel l’allaccio della corrente elettrica, ma non me l’hanno concesso. Così ho comprato un generatore che mi costa circa 40 euro al giorno di carburante. Cavallerizzo era già nel libricino della cricca che ha operato tra l’Aquila e la Sardegna. Dovevano ricostruirla a tutti i costi, e l’hanno fatto. Però qui gli edifici sono tutti intatti. Noi volevamo il ripristino dei servizi, e una casa per chi l’ha perduta, invece ci hanno deportato».

Le fa eco Silvio Madotto, il più determinato degli attivisti: «L’associazione è nata per fermare lo scempio e ripristinare la verità. Il nostro paese non è mai franato. Ci sono stati solo degli smottamenti nelle zone in cui gli emigranti che sono tornati, a partire dagli anni sessanta, hanno costruito palazzi abusivi, nonostante fossero terreni ad alto rischio idrogeologico. Il resto l’ha fatto l’acquedotto dell’Abatemarco che con le sue perdite ha rosicchiato il ventre della montagna. Sin dal primo momento abbiamo detto che non saremmo andati ad abitare nella new town che non rispecchia il nostro modo di vivere. Qui veniamo ogni giorno e teniamo pulito. Il sindaco, Giuseppe Rizzo, ci ha persino vietato di fare le giornate ecologiche. Non sappiamo perché ce l’abbiano tanto con noi. Eppure non abbiamo mai chiesto niente per la manutenzione dell’antico borgo. Sappiano, però, che noi non cediamo».

Dello stesso avviso Massimo Figlia, uno degli esponenti più giovani dell’associazione, che annuncia i prossimi passi della campagna: «A breve organizzeremo una grossa assemblea popolare in cui chiameremo a parlare le persone che ci sono state vicine. Il mondo deve sapere. Adesso è la legge a darci ragione». Cavallerizzo vive, Cavallerizzo vivrà.