Se c’è un regista da cui aspettarsi qualsiasi cosa ogni volta esce un suo film, che sia la manipolazione del genere, l’esorbitazione degenere, la mistione tra filosofema e civismo, corporeità e spettralità, oppure la febbrile interrogazione dell’io in disfacimento, riedificazione, alterazione; quello è Bertrand Bonello, già dai tempi di Quelque chose d’organique in cui peraltro mostrava una fede incrollabile nell’immagine, e un rispetto per la sua volumetria, per una trasparenza sempre trepida, sibilante, musicale dell’inquadratura, che resistono e anzi si sono rafforzati nell’ultimo Zombi Child, reduce dalla Quinzaine e ancora in giro per festival, rassegne, retrospettive – sarà anche a Bari, al Cineporto, domani alle 20.30 presentato dal regista.

È PROPRIO questione di struttura dell’opera di Bonello, di scrittura, anzi di partitura, vista la sua formazione musicale: un contrappunto, un’ambiguità della messa in scena che fa emergere screzi, tonalità elusive, impressive, di accordi sospesi; insomma altre possibilità di senso dalla sedimentazione aerea delle immagini e dalla loro concatenazione, dalle ellissi silenziose o al ritmo di techno-alberi, techno-radure danzanti nella boscaglia (De la guerre); salti di senso, di coscienza, attraversando lunghi passaggi in penombra, abissi tra una scena e l’altra che sono quelli dei raccordi o degli stacchi siderali. Non è il significato che affiora dal prototipo del film bonelliano (anche se questo è sempre ravvisabile), quanto la congerie libera, volatile, disarticolata dei significanti, dei corpi, volti, e di alcuni luoghi topici: ad esempio il rarefatto eremo campestre in De la guerre, o il collegio e, al suo interno, il salone d’arte, il reliquiario in cui le ragazze di Zombi Child si incontrano di notte, oppure, ovviamente, il centro commerciale di Nocturama; e ancora, il set cinematografico di Le pornographe, dov’è in gioco il destino, l’identità del cineasta (del cineasta Bonello innanzitutto) teso tra l’insidia dell’alienazione e l’appiglio di una qualche dialettica, di una qualche poetica da perseverare nonostante la deriva utilitaristica del contemporaneo. Sono queste le polarità intorno a cui si dispone il cinema di Bonello, e tanto più in Zombi Child, modulate nel personaggio di Fanny, adolescente in qualche modo ottusa, collusa con il presente pecuniario, abumano, eppure in balia di un amore incontrollabile, ancestrale, che la sottrae all’alienazione e la riumanizza, in modo così insostenibile da farle cercare la morte o la dimenticanza, la subumana incoscienza dello zombie, preferibile all’assedio del dolore, allo scandalo dell’umano, del senso d’abbandono.

I PERSONAGGI di Bonello sono tutti alla ricerca di una possibilità di vita o di mera sopravvivenza superando o sublimando quello che hanno perso, ciò di cui sono orfani, in un mondo che, con infrastrutture, omologazioni, stereotipi, eleva a potenza il dolore, un senso insoffribile di solitudine in mezzo al sordo via vai della civiltà. Ecco allora il legame stretto, quasi l’identità tra poetica e politica in questo cinema; il trasporto estetico, impulsionale, ai limiti del trascendente, che coincide con l’impegno, la denuncia, lo sdegno, come quello del regista Jacques Laurent (Jean-Pierre Léaud) nei confronti del cinema pornografico contemporaneo votato esclusivamente alla propria commerciabilità, al di là di ogni soluzione poetica, estetica (Le pornographe). Cioè al di là di ogni spreco, quello di un’eiaculazione (lo spreco spermatico invocato da Faucault contro il regime di produzione, di riproduzione), che secondo gli schemi del genere deve essere mostrata, spicciata sulle pareti di un qualche orifizio, sul volto, contro le labbra, e invece Laurent vuole sia schizzata in bocca, poi ingoiata, occultata allo sguardo e così riverbalizzata, immaginata.

È, sarebbe stata – se il produttore del film non avesse strappato la regia a Laurent nel mezzo della scena madre, riportando tutto ai canoni del film porno di consumo – la scoperta di una narrazione diversa, instaurando tra gli attori un’intimità fuori dalla compenetrazione meccanica dei corpi, viatico a un’estetica colta in flagranza amorosa: un corpo levigato, allo stesso tempo attrice e personaggio, che porta in sé il succo dell’altro e così se ne va. Come avrebbe fatto due anni dopo il fantasma di Daisy in The Brown Bunny, il capolavoro di Vincent Gallo, lasciando Bud alle prese con l’assedio dell’assenza.

SONO storie d’amore, cioè storie di fantasmi (che magari anelano a divenire zombie, incoscienti, segnati da estrema ellissi), sono storie di cinema, che tengono insieme, in un iperuranio sospeso sopra le nostre teste, gli infiniti ectoplasmi pronti a incarnarsi ogni volta in una vicenda in carne e ossa, quella umana (scandalosamente umana) evocata ogni volta da Bonello, fatta di evanescenze, sparizioni, e del tentativo di sopravvivervi, di sopravvivere a questa guerra.