Zingaretti tratta ma non entra
Il giorno più lungo Il segretario dem cerca l’accordo con Conte e avverte i suoi: «Io resterò in Regione»
Il giorno più lungo Il segretario dem cerca l’accordo con Conte e avverte i suoi: «Io resterò in Regione»
Alle sei e mezza del pomeriggio Nicola Zingaretti torna al Nazareno dall’incontro-lampo con Luigi Di Maio a Palazzo Chigi e si chiude con Andrea Orlando e Paolo Gentiloni nel suo studio al secondo piano. «È stato un incontro interlocutorio», spiegano dallo staff.
È chiaro che il sì più difficile, quello che consegna la mano del Pd in quella dell’ex nemico grillino, non si può chiudere solo con Luigi Di Maio, un ex vicepremier ormai azzoppato e disperato per un destino da ministro «di seconda fascia».
Si aspetta dunque il ritorno di Giuseppe Conte da Biarritz. Con lui Zingaretti si è sentito in mattinata, per tracciare le linee dell’accordo. Il nuovo appuntamento è alle 21 di ieri sera, di nuovo a Palazzo Chigi, dove peraltro Di Maio non ha neanche un grande ufficio vero e proprio.
DOPO IL SUMMIT con i suoi, il segretario esce in strada e parla con i cronisti: «Finalmente il confronto è partito per dare al paese un governo di svolta che guardi ai lavoratori, all’ambiente. Questo primo incontro è partito bene. Siamo sulla strada giusta per costruire un accordo, fare un governo è una cosa seria, partiamo dai contenuti».
[do action=”quote” autore=”Nicola Zingaretti”]Finalmente il confronto è partito per dare al paese un governo di svolta che guardi ai lavoratori, all’ambiente. Siamo sulla strada giusta.[/do]
Per questo il Pd la domenica ha riunito tutti i dirigenti per i tavoli sui sei dossier principali del futuro programma. Ma non è questa la priorità dei 5 stelle, che pur di mantenere Conte a Palazzo sono disponibili ad amplissime concessioni. Accusano il Pd di pensare solo alle poltrone. Eppure Di Maio ha chiesto, oltre alla premiership di Conte – che i 5 stelle insistono a considerare ‘super partes’ e il Pd invece inscrive ovviamente in quota ‘movimento’- anche un vicepremier, il Viminale e il commissario europeo (sul quale invece farebbe un pensierino direttamente Renzi). Un tentativo scoperto di far saltare il banco. A questo punto Zingaretti saluta, l’incontro è riaggiornato alla serata, al summit a quattro: i due pentastellati, il segretario Pd e il suo vice Andrea Orlando.
Per quest’ultimo Zingaretti chiede il posto da vicepremier. Altre voci parlano di un Franceschini vicepremier e Orlando sottosegretario alla presidenza. L’ex ministro della cultura, «evergreen» del Palazzo, è uno dei pochi che ha tenuto i canali aperti con i 5 stelle quando fra le due forze politiche c’era la cortina di ferro.
MA IN OGNI CASO è questa l’altra notizia della giornata in cui cade il veto sul Conte bis: il segretario Pd non entrerà al governo. Non lo farà, anche se i suoi lo pregano. Hanno provato a convincerlo in tanti, praticamente tutti i presenti ieri in un Nazareno affollato e trasformato in unità di crisi. Oltre al presidente Gentiloni e a Orlando, l’altra vicesegretaria De Micheli, Misiani (entrambi in predicato di diventare ministri), Martella, Miccoli, Amendola, Provenzano, Giorgis, Cuperlo, Sereni. Le prime riunioni sono in mattinata, poi nel primo pomeriggio si riunisce la «cabina di regia»: Gentiloni, le due vicepresidenti Ascani e Serracchiani, De Micheli e Orlando, i capigruppo Marcucci e Delrio. E Franceschini.
[do action=”quote” autore=”Matteo Renzi”]Se l’Italia manda a casa i sovranisti, può tornare a giocare un ruolo da protagonista. Questo è il momento. Perdere questa occasione sarebbe folle.[/do]
TUTTI CHIEDONO a Zingaretti di impegnarsi in prima persona. Tutti si sentono rispondere con determinazione: «Io resto in regione». A tutti spiega che per responsabilità si è disposto a trattare (sottinteso al ribasso, come gli chiedevano in molti, da Renzi in giù) per portare a casa l’accordo. Ma a ieri sera il no al suo ingresso al governo è granitico: non può essere insieme presidente della regione Lazio, segretario e vicepremier. «Abbiamo preso un impegno con i cittadini», ripetono i suoi.
Ma come potrà dirigere il Pd ormai tornato nelle stanze dei bottoni restando fuori dal parlamento e anche dal governo è un mistero che solo lui potrà spiegare, nei prossimi giorni.
Per il resto, il segretario è finito spalle al muro. Le pressioni per il sì al Conte bis sono arrivate da ovunque: dai sindacati alla Curia, dalla base del Pd. Dal gruppo dirigente. Dai renziani che dall’inizio negavano il veto sul sedicente avvocato del popolo.
SUL NO ERANO RIMASTI solo i fedelissimi, e sempre meno. Il segretario era rimasto solo, con l’incubo di un voto anticipato che si sarebbe potuto risolvere in un plebiscito per Salvini. Troppo, appunto, per un uomo solo. Ma questa sarà un’altra storia, se ne riparlerà una volta conclusa quella, non bella, della nascita del governo Pd e M5s. La trattativa va avanti nella notte, oggi la direzione del Pd è convocata alle 18.
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