Toccherà al segretario dem Nicola Zingaretti disegnare, nel suo intervento di stamattina a Bologna, il «nuovo Pd» chiesto con forza – e soprattutto con speranza – nella tre giorni «Tutta un’altra storia» dalle tante voci che si sono date il cambio sul palco e nei seminari. Dalla sociologa Chiara Saraceno, al gesuita della rivista Civiltà Cattolica padre Occhetta – «Non dobbiamo dividerci fra credenti e non ma tra chi usa parole di speranza e chi parole d’odio» -, ai segretari di Cisl e Uil fino all’intervento accorato del leader Cgil Maurizio Landini: «La sinistra ha perso la sua spinta propulsiva, queste culture, sia pure con gradi diversi, sono corresponsabili del disastro che si è prodotto nel mondo del lavoro».
Il leader Pd, ringraziando i partecipanti sui social (solo ieri almeno tremila) ha anticipato poco, quasi nulla delle proposte che farà stamattina: quello che uscirà dalla tre giorni bolognese, scrive, sarà «un nuovo Pd aperto, dove tutti possono partecipare. Utile per cambiare l’Italia».

Ma più che al suo discorso, la «rifondazione» del Pd, viene assicurato, sarà affidata a due gambe: la prima sono le nuove pratiche e le nuove interlocuzioni sociali del partito ormai pronto a costruire un nuovo campo di alleanze, di cui gli interventi della sala di palazzo Re Enzo sono la prima dimostrazione concreta. La seconda gamba sarà la nuova organizzazione interna che sarà varata questo pomeriggio dall’assemblea nazionale che voterà il nuovo statuto. Per Zingaretti si tratta di un cambio «rivoluzionario».

In realtà le modifiche introdotte alla fine di una lunga trattativa con le correnti interne – soprattutto i franceschiniani di Areadem e gli ex renziani di Base riformista – non cambiano la natura del partito. Restano le primarie aperte per l’elezione del segretario, ma l’avvio del congresso vede un primo momento di discussione interna «a tesi» solo dopo la scelta del candidato segretario. Il quale a sua volta resta il candidato premier anche se poi il leader eletto avrà la possibilità di riaprire i gazebo per consegnare la scelta ai votanti, come del resto fece Bersani nel 2013. L’elezione del segretario sarà fra i due più votati, e non tre, il che esclude l’eventualità di una scelta finale dell’assemblea che ribalti il risultato, cosa del resto possibile fin qui in via teorica ma di fatto mai successa.

Alla vigilia, una lettera di seicento fra dirigenti e militanti ha chiesto di rimandare il voto del nuovo statuto e di far discutere di più i circoli. Richiesta respinta dal Nazareno per il quale la discussione è stata ampia e diffusa.
Il tema più caldo degli interventi sarà la traballante alleanza di governo e le future alleanze. Dal palco di Bologna Dario Franceschini ha indicato la rotta: l’esecutivo deve andare avanti e il Pd deve insistere nel rapporto con i 5 stelle. Zingaretti, che è su questo della stessa opinione, ieri ha parlato di un nuovo Pd «ovunque pilastro fondamentale delle alleanze più larghe possibili».

Matteo Orfini, leader della minoranza dei «giovani turchi» – l’unica che non entrerà nella futura segreteria unitaria, presenterà cinque ordini del giorno su cinque obiettivi da raggiungere in cento giorni: abrogazione dei decreti sicurezza, ius culturae, parità salariale fra uomini e donne, modifiche alla riforma della giustizia Bonafede contro il «populismo penale» e stop ai tirocini gratuiti. Difficile che questi cinque punti possano essere rifiutati dall’assemblea. Ma certo costituirebbero altrettanti sassi nel già farraginoso meccanismo del governo.

Altro tema caldo, il congresso reso necessario dal cambio di linea proprio sul rapporto con il Movimento 5 Stelle. A chiederlo non è solo la minoranza turca ma anche Sinistra dem, la corrente del vicesegretario Orlando che è anche il più tiepido sul governo: «Se la paura continua a crescere dobbiamo pensare a una alternativa, perché la sfida che abbiamo ingaggiato non riguarda i nostri destini ma il futuro della democrazia», ha detto ieri dal palco. Dal Nazareno fin qui l’indicazione è di parlarne, semmai, a fine tornata di tutte le elezioni regionali, quindi non solo dopo il 26 gennaio (quando vanno al voto Emilia Romagna e Calabria) ma dopo la primavera.