La trattativa nella maggioranza sulla legge elettorale è allo stallo; il maggioritario – sistema preferito da Zingaretti, Veltroni e Prodi – non è fattibile, «mai stato sul tavolo», spiegano anzi dal M5s. E comunque converrebbe all’unica coalizione oggi esistente, quella della destra. Per questo ieri il segretario Pd si è fatto dare dalla direzione un mandato per trovare «un’intesa con un ampio consenso. Siamo disposti a valutare il proporzionale con adeguati sbarramenti e liste corte». E ai molti che hanno protestato ha spiegato che «l’alternativa concreta è che rimanga questa legge pessima», il Rosatellum che pure il Pd ha voluto.
Alla fine la sua relazione viene approvata all’unanimità. Ma sulla legge elettorale il Pd incassa una nuova mortificazione. Il testo che doveva essere presentato entro Natale ha una nuova dead line, il 15 gennaio. Per ora. Pesano i giochini tattici di Italia viva (il no al modello spagnolo su base circoscrizionale a favore di quella nazionale) e il no di Leu sullo sbarramento al 5%.

Non è il solo guaio sul viottolo stretto del governo. È passata la nottata del Mes, il segretario esprime soddisfazione per la manovra (che sarà approvata a colpi di fiducia) ma il futuro dell’alleanza è incerto. «Continuiamo a credere nell’impianto politico della maggioranza. Oggi è una visione spesso messa in discussione tra vari distinguo, ma è ancora più valida e necessaria che in agosto». Ma per andare avanti serve «un piano per il 2020», quello che il premier Conte chiama «cronoprogramma» e l’alleato Di Maio «contratto», sapendo di mettere un dito nell’occhio al Pd che ritiene quella definizione «incostituzionale».
«Lasciamo perdere la riedizione di contratti», dice Zingaretti, «Serve un pacchetto di misure corredato dalle coperture per dare al governo il necessario profilo concreto». Tradotto: a gennaio serve «una verifica». Senza, difficile andare avanti. «Non minaccio la crisi, ma basta scaricare sulla maggioranza i problemi interni ai partiti», avverte, la pazienza del responsabilissimo Pd «potrebbe finire».

Ma è tutta salita. «Non sono un esperto, ma una cordata scala una parete se procede insieme e per le forze politiche vale la stessa cosa, il premier deve guidare questa cordata. Noi saremo i più leali ma la stessa lealtà la chiediamo ai nostri alleati», dice Zingaretti. Conte la pensa alla stessa maniera. Tanto che, a chi gli chiede se si è avvicinato al Pd, risponde: «Non è assolutamente vero» e però «il Pd mostra maggiore compattezza e unitarietà. Nel Movimento invece ci sono maggiori fibrillazioni».

La legge elettorale è solo uno dei tanti punti di frizione fra Pd e M5S. Non c’è ancora soluzione per il nodo giustizia, su come limitare i danni dell’abolizione della prescrizione. Sarà l’oggetto di un vertice tecnico lunedì. E così sulla legge elettorale: la prossima settimana è in programma un vertice allargato alle opposizioni. Il Pd crede che la Lega farà pendere la bilancia sul modello spagnolo. La maggioranza è nel pantano, insomma, il Pd sarà «leale» fino in fondo e l’area dei nuovi ’responsabili’ al senato sembra un’assicurazione sulla legislatura. Se così non fosse non sarà Zingaretti a staccare la spina dell’esecutivo. Ma neanche a disperarsi, se dovesse farlo qualcun altro. Anzi.