Un dopo Ferragosto di fuoco in casa Pd. Un attacco concentrico sferrato dagli ex renziani rimasti nel partito contro il segretario Nicola Zingaretti: da Giorgio Gori e Dario Nardella, sindaci di Bergamo e Firenze, parte la richiesta di un congresso anticipato, con il leader della minoranza interna Lorenzo Guerini che lancia sul Foglio un “manifesto” per un Pd «non subalterno» ai grillini.

IL VOTO DEL M5S su Rousseau – che ha aperto alle alleanze sui territori con i dem – è la scintilla che ha fatto scattare l’offensiva degli ex renziani. Nardella è perentorio: «Prima di legarsi in un matrimonio politico con i grillini, si abbia il coraggio di coinvolgere ed ascoltare iscritti, amministratori ed elettori con un congresso, vero, di nome e di fatto». «Non puoi ribaltare di 180 gradi la linea di un partito senza passare da un congresso», attacca Gori. «C’è e deve esserci una differenza tra una leale e tattica collaborazione di governo, e il venir meno al proprio dna».

TONI E CONTENUTI che fanno perdere la pazienza al compassato Zingaretti. Che fa partire la contraerea dei suoi fedelissimi («Vogliono tornare quelli che ci hanno lasciato il partito al 15%», sibila un deputato vicinissimo al leader), poi interviene personalmente con un post su Facebook in cui accusa i suoi avversari interni di fare «ricostruzioni fuorvianti» sull’esito del voto interno al M5S, «non sempre senza malizia e con una buona dose di strumentalità». Zingaretti rivendica la sua soddisfazione per l’evoluzione dei grillini: «Alleati e non avversari: è quanto abbiamo detto dal primo giorno». «Che ne dite di fare la campagna elettorale prima e parlare di assetti interni poi?», prova a mediare il vicesegretario Andrea Orlando. Mentre Nicola Oddati, molto vicino a Zingaretti, rincara la dose: «La nostra strategia comincia a funzionare. E può essere che le cose che facciamo funzionino? No. Per taluni esponenti del Pd non può essere. Sono gli stessi che, durante le trattative per il governo, erano pronti ad accettare qualsiasi cosa». Guerini, dal canto suo, sottolinea con forza le «profonde e radicali differenze politico-culturali tra noi e i 5 Stelle, che danno un carattere tattico alla nostra alleanza». E ribadisce la linea: no a «confuse e artificiose operazioni di maggioranze posticce».

UN CLIMA DI ACCUSE reciproche che non si vedeva tra i dem dallo scorso autunno, quando Renzi uscì sbattendo la porta. Da allora i suoi ex fedelissimi avevano tenuto un profilo piuttosto dialogante con il segretario. Anche perché la scelta politica più rilevante del nuovo leader – la nascita del governo Conte bis – era stata sponsorizzata proprio da Renzi. Ora però, alla vigilia delle regionali di settembre – un test importante per la salute del governo ma anche per quella del Pd – la minoranza renziana fiuta l’occasione per poter mettere in discussione il leader in caso di sconfitta. Concetto che Giorgio Gori aveva già espresso pubblicamente a giugno, invocando una «nuova leadership» e «un Pd molto più determinato e incisivo». Due mesi fa era rimasto una voce isolata. Ora no.

SUL FRONTE DELLE ALLEANZE per le regionali restano poche ore (le liste vanno presentate entro sabato alle 12) per trovare un accordo tra Pd e M5S nelle Marche, l’unica regione al voto in cui i giochi sono ancora aperti. Il candidato grillino Gian Mario Mercorelli nega ogni ipotesi di passo indietro a favore del Pd Maurizio Mangialardi. Ed elenca le sue accuse alla gestione della regione: «Atteggiamento clientelare, sanità spostata in maniera massiccia verso la privatizzazione, mancanza di qualsiasi slancio innovatore». Di fronte alla proposta, ribadita dal dem Matteo Ricci, di fare un ticket con Mangialardi, il candidato grillino replica: «Non mi vendo per una poltrona». «Nelle Marche andiamo avanti per la nostra strada», gli dà manforte il senatore 5 Stelle Giorgio Fede. In realtà sull’asse Zingaretti-Di Maio un filo di trattativa resta aperto. Ma è un filo sottilissimo.