Alla fine, dopo una settimana di suspense, l’ha fatto davvero: Nicola Zingaretti si è dimesso nel pomeriggio di ieri da segretario del Pd. L’ha fatto con un post su Facebook, poi si è chiuso nel silenzio. Anche i dirigenti più vicini a lui hanno trovato il cellulare staccato.

LA SUA VERITÀ L’HA LASCIATA a verbale sul social network: «Lo stillicidio non finisce. Mi vergogno che nel Pd da 20 giorni si parli solo di poltrone e primarie, quando in Italia sta esplodendo la terza ondata del Covid, c’è il problema del lavoro, degli investimenti». Poi ricorda la coincidenza dell’anniversario: due anni fa fu eletto alle primarie con il 66%, un milione di voti, era il 3 marzo.

Ora si chiude il sipario. «Abbiamo salvato il Pd e ce l’ho messa tutta per spingere il gruppo dirigente verso una fase nuova. Ho chiesto franchezza, collaborazione e solidarietà per fare subito un congresso politico sull’Italia, le nostre idee. Non è bastato. Anzi, mi ha colpito il rilancio di attacchi anche di chi in questi due anni ha condiviso tutte le scelte fondamentali che abbiamo compiuto. Non ci si ascolta più e si fanno le caricature delle posizioni. Ma il Pd non può rimanere fermo, impantanato per mesi a causa in una guerriglia quotidiana. Questo, sì, ucciderebbe il Pd». L’amara conclusione: «Visto che il bersaglio sono io, per amore dell’Italia e del partito, non mi resta che fare l’ennesimo atto per sbloccare la situazione. Ora tutti dovranno assumersi le proprie responsabilità».

LA NOTIZIA HA SPIAZZATO tutti. La giornata fino alle 16 era stata normale, conferenza stampa in regione al mattino, piano vaccini. Poi il post su Facebook, preannunciato solo a pochi fedelissimi, ma non a big come Orlando e Franceschini. Il 24 febbraio, stremato dopo l’ennesima guerra sui sottosegretari, Zingaretti aveva minacciato le dimissioni, stanco del logoramento e del fuoco amico.

Poi l’allarme sembrava rientrato, lunedì 1 marzo in direzione aveva parlato con l’approccio di chi guarda lontano, «le primarie saranno nel 2023, ora lavoriamo per rigenerare il Pd a partire dall’assemblea del 13 e 14 marzo». Molti tra i fedelissimi pensavano che l’allarme dimissioni fosse rientrato.

POI ALTRE GIORNATE di attacchi dagli ex renziani di Base riformista, dall’area di Orfini, tutti a chiedere «un congresso vero», a minacciare strappi, a imputargli l’abbraccio con i grillini. Mercoledì il tweet di Pier Luigi Castagnetti, padre nobile, vicinissimo al Quirinale: «Capisco la resistenza di Zingaretti verso un congresso straordinario. Ma a fronte di sondaggi al 14% qualcosa di straordinario bisognerà pure inventarsi. E anche subito».

Un colpo che ha fatto di nuovo vacillare Zingaretti. E così ieri ha deciso che la misura era «colma». «Se si va avanti così il Pd muore, ma non lo faranno in mio nome, lo facciano da soli, io sono stanco di prendere schiaffi», la confessione a un amico che l’ha chiamato pregandolo di ripensarci. «Lui ha fatto di tutto per gestire il Pd in modo unitario, gli altri ne hanno approfittato per prendere posti e intanto cercare di logorarlo», spiega un altro dirigente vicino al segretario. «A tirarla troppo la corda si spezza», la sintesi di Stefano Vaccari, responsabile organizzazione.

DOPO L’ANNUNCIO, IL DILUVIO di richieste di ripensarci, a decine, comprese raccolte di firme tra i militanti, centinaia di mail arrivate al Nazareno. Goffredo Bettini, il primo consigliere, auspica che ci sia «spazio per un ripensamento». Altri lo sperano, ma chi ha parlato con Zingaretti sa che «non è una finta, sono dimissioni vere».

Irrevocabili? Pare proprio di sì. Non una mossa per rilanciarsi dopo la sberla della caduta di Conte, per essere richiamato per acclamazione. Né un viatico per candidarsi a sindaco di Roma: resterà presidente del Lazio fino a fine mandato. Punto.

Il primo a chiedergli un supplemento di riflessione è Graziano Delrio: «Il Pd ha bisogno che Nicola, che ha sempre ascoltato tutti, rimanga alla guida del partito. Il dibattito interno è fisiologico e non deve essere esasperato. Ritroviamo insieme la strada».

LA RICHIESTA DI UNA retromarcia arriva anche da Lorenzo Guerini, capo di Base riformista, la corrente più agguerrita contro Zingaretti: «Mi auguro davvero che ritiri subito le dimissioni». Poi l’excusatio: «Tutti abbiamo a cuore il Pd e ci sentiamo responsabili verso l’Italia». Così anche il capogruppo in Senato Andrea Marcucci, uno degli arieti degli attacchi a Zingaretti, insieme ai sindaci Dario Nardella e Giorgio Gori e a Matteo Orfini.

Dario Franceschini si schiera: «Il gesto di Nicola impone a tutti di accantonare ogni conflittualità interna, ricomponendo una unità vera del partito attorno alla sua guida». Così anche Orlando: «Unitariamente bisogna chiedergli di ripensare la sua decisione». Sono i tre capicorrente, i tre ministri a parlare all’unisono.

NEL CORO ANCHE Piero Fassino, Gianni Cuperlo, Debora Serracchiani, Matteo Mauri, l’ex renzianissima Anna Ascani. L’ex vicesegretaria Paola De Micheli ha firmato un appello dei militanti: «Credo che la slealtà nei confronti del segretario, della sua costante tensione unitaria, abbia caratterizzato i recenti passaggi della vita del Pd».

Alcuni dirigenti molto vicini al segretario (Virginio Merola, Francesco Boccia, Giuseppe Provenzano) chiedono che sia l’assemblea del 13 a respingere le dimissioni: un atto ancora più forte che evidenzierebbe la debolezza delle minoranze. «Se qualcuno adesso si stupirà, sarà il trionfo dell’ipocrisia», dice Merola. «La pazienza di una persona come Nicola ha un limite: la lealtà e la condivisione vera di responsabilità».