I primi dati «bollinati» dovrebbero uscire stasera. Ma ormai anche quelli ufficiosi diffusi dall’area di Nicola Zingaretti non vengono più contestati. Su 114 mila votanti il presidente del Lazio si attesterebbe al 50,3 per cento, Maurizio Martina al 31,9, Roberto Giachetti al 13,7. Seguono Francesco Boccia al 2,7%, Dario Corallo allo 0,8 e Maria Saladino allo 0,7. Boccia è l’ultimo rimasto dare battaglia sulle cifre. In ogni caso la terzina che passa ai gazebo del 3 marzo ormai è fatta.

IL VOTO PERÒ FOTOGRAFA con crudezza un partito in stato di abbandono in cui appena il 35 per cento degli iscritti alla fine avrà partecipato al congresso. Intere regioni ancora mancano all’appello. In Calabria le operazioni di voto sono rallentate causa commissariamento. In Sicilia l’ala zingarettiana denuncia il nuovo segretario Davide Faraone di «atteggiamento ostruzionistico», non da solo. Nell’isola a ieri avevano votato due circoli a Ragusa. In alcune zone di Italia il maltempo ci ha messo del suo. Il termine del congresso dei circoli dunque slitta da oggi al 26 gennaio. Slittano dunque più avanti anche i dati definitivi.

MA ORMAI QUELLO che è successo al Pd è chiaro. Zingaretti è riuscito a «conquistare» il partito, o quel che resta nel post Renzi, bordeggiando il 50 per cento (anche se dall’area Martina gli sherpa assicurano che resterà sotto quella soglia). Martina finisce indietro staccato di molto, anche in nel ’suo’ nord. Il che seppellisce qualsiasi possibilità di rovesciare il risultato non solo ai gazebo «aperti» agli elettori, ma anche nell’assemblea nazionale dove pure gli sconfitti si faranno sentire. Già amarissime le parole della giovane cosentina Mariella Saladino, unica donna della corsa, finita in coda alla classifica, che denuncia «l’assenza del partito, la distanza tra gli iscritti e la classe dirigente che resta al comando senza consentire una virata, quasi governa la rotta per il ritorno in cantiere».

ZINGARETTI SI APPRESTA a raccogliere un partito in rotta organizzativa. Con episodi clamorosi, silenziati dal congresso ma destinati subito dopo a far esplodere contraddizioni.

IN PUGLIA AD ESEMPIO. Lunedì scorso il presidente della regione Michele Emiliano, schierato con Zingaretti, è riuscito nel capolavoro di imporre le primarie per le regionali. La data sarà il prossimo 24 febbraio, prima di quelle nazionali del 3 marzo. Ma il bello è che le elezioni regionali pugliesi si svolgeranno nel 2020. I gazebo per il candidato – che comunque aveva già avuto il via libera dei renziani e poi di Zingaretti – si svolgeranno più di un anno prima del voto. «Così avremo il tempo di costruire un programma dal basso e non passeremo il tempo a combatterci fra noi e a rendere difficile la vita del governo regionale», spiega Emiliano.

GUAI ANCHE DAL PIEMONTE dove Sergio Chiamparino si ripresenta. La regione andrà al voto il 26 maggio, in contemporanea con le europee. Ma per attaccare i leghisti (favoritissimi dai sondaggi) ha deciso di fare della battaglia Sì Tav l’asse principale della campagna elettorale. Smontando così l’alleanza di centrosinistra, nonostante la buona volontà di Leu e della sinistra pronta al fronte anti-destre ma contraria a un fronte del Sì alle grandi opere.

A ROMA NON VA MEGLIO. In queste ore i gruppi parlamentari procedono in ordine sparso: non c’è una vera linea sul reddito di cittadinanza, su quota 100 e neanche sulla riforma costituzione targata 5 stelle in discussione alla camera.

SOLO DAL FRONTE RENZI un problema sembra essersi risolto, o per lo meno rimandato. È quello della fantomatica scissione. «Una mia lista? Fantapolitica. Scenari ipotetici che non esistono. E non mi candiderò alle europee», ha detto ieri su Rete 4. Applausi da Carlo Calenda, che gli spalanca le braccia: «Ci sarà da combattere insieme». Ma a sentire le parole di Roberto Giachetti (ad esempio: «Riportare dentro i fuorisciti come vuole fare Zingaretti è suicida»), fra i renziani doc non si respira affatto aria di tregua.