Nicola Zingaretti varca la soglia del Nazareno alle 22 e 30, e chi gli è accanto già parla di «un buon clima». L’uomo è prudente, dopo aver votato ha preso il caffè al solito bar vicino Piazza Mazzini, ci ha mangiato sopra un diplomatico. Più che una colazione, un rito scaramantico. Poi è andato a casa e ha staccato il cellulare. Ogni tanto riaccendeva, leggeva qualche whatsapp e poi ristaccava la linea. Fino alla partita della Roma.

SOLO ALLE UNDICI DI SERA, quando gli exit poll ipotizzano il Pd oltre il 20 per cento e soprattutto il sospirato sorpasso dei 5 stelle, il segretario nel suo studio del terzo piano viene descritto come «euforico». Si fa fotografare in un gesto di esultanza, davanti a lui un Paolo Gentiloni, presidente del partito, rilassato e sorridente, dietro di loro scaffali vuoti, segno di una sede in dismissione ma anche di un leader che aspettava il primo risultato per insediarsi davvero. Quel risultato è arrivato? Durante la notte ne sembrano arrivati ben due.

GLI EXIT POLL SONO NUMERI infidi per definizione. Ma le prime proiezioni li confermano. Il Pd viene dato al 21,7 per cento, i 5 stelle al 19. La scommessa del nuovo corso del Pd è vinta: siamo lontanissimi dal 41 per cento del 2014, ma il partito recupererebbe più di due punti percentuali dal tonfo del 4 marzo 2018. E si lascia dietro i 5 stelle. Le macerie lasciate dalla stagione renziana sono ormai alle spalle. Andrea Orlando viene mandato davanti ai cronisti nella grande sala della direzione: con tutte le cautele del caso «il Pd c’è, è un risultato importante», dice, «in Italia il Pd ottiene un risultato importante: un anno fa si discuteva della fine del bipolarismo tra destra e sinistra e della nascita di un bipolarismo tra populismi. Non è così».

La rivendicazione della fine del renzismo è evidente. In più rispetto ai partiti fratelli socialisti in netto calo, il Pd resta un partito forte, il secondo dietro il Psoe spagnolo di Sanchez, lontanissimo dalla crisi nera del Ps francese e della nuova frana della Spd tedesca. Poco dopo l’una Zingaretti si presenta ai cronisti: «Siamo molto soddisfatti dell’esito elettorale, la scelta della lista unitaria si è rivelata vincente», «Il governo paralizzato già prima del voto esce ancora più fragile per le divisioni interne», «Noi ora dobbiamo costruire una alternativa a Salvini che esce da queste elezione come leader di un governo immobile e pericoloso. Ci dobbiamo preparare a un voto politico, quando sarà il momento», «L’aggressione sovranista è fallita».

NEI COMITATI ELETTORALI dei candidati si fanno i conti. Con un Pd al 22 per cento dalla circoscrizione Nord ovest verosimilmente dovrebbero partire per Bruxelles 5 eletti, 4 o 5 dal Nord est e dal Centro, 3 o 4 dal Sud e uno dalle Isole, per un totale dai 17 ai 20 eurodeputati. Fra i 6 e i 9 eletti in meno, certo, ma il peggio è scongiurato.

AL NAZARENO PERÒ, al di là dei sorrisi a favore di Instagram e delle telecamere, si aspettano i voti reali. Che arriveranno oggi: solo così si capirà se e quanto il Pd ha davvero ricominciato a crescere. Quello dei numeri è un verdetto più reale delle percentuali. E forse sarà più severo. Zingaretti puntava al recupero di due milioni di voti, dai 5 stelle e dall’astensione, rispetto alle politiche dell’anno scorso quando ha preso 6.134.727 voti (7.480.806 con gli alleati). Così tornerebbe ai livelli ‘bersaniani’ del 2013 (8.644.187 in proprio, 10.047.603 con la coalizione Italia bene comune, quelli renziani delle europee del 2014 erano 11.203.231).

COMUNQUE VADA da ora Zingaretti può e deve procedere alla costruzione della nuova alleanza. In attesa della crisi di governo. Dicendo di volerla subito, sperando che non arrivi troppo presto. Gli alleati +Europa, Italia in Comune, Verdi e Art.1 sono già della partita. Con La Sinistra si vedrà: il suo risultato balla ma è lontano dal quorum del 4 per cento, si vedrà.

MANCA PERÒ ALL’APPELLO una formazione che raccolga i moderati in fuga da Forza Italia. Nel Pd da oggi si farà sentire la componente centrista di Base Riformista. E se i voti realmente raccolti non saranno corposamente più di quelli delle politiche c’è da scommettere che batterà un colpo anche Renzi. Che alla vigilia delle urne aveva avvertito il segretario: «Bisogna guardare a un centro sinistra moderato, perché la nostra storia e tutto il mondo insegnano che le elezioni le vinciamo al centro, non a sinistra». Solo i voti veri potranno far capire se la scissione è più lontana. O viceversa si avvicina, paradossalmente, come un male necessario.