«È chiaro che qualcuno dovrà spiegare che cosa è accaduto ieri». I rapporti tra Nicola Zingaretti e i gruppi parlamentari del Pd, selezionati con il Rosatellum e dunque in massima parte nominati da Renzi, non sono eccellenti. E così ieri il segretario non ha esitato a fare la faccia feroce quando gli è stato chiesto delle numerose assenze dei deputati democratici nel voto finale sul decreto crescita. Venerdì su 111 eletti del Pd alla camera, hanno votato (contro) solo in 29. Sette erano in missione e ben 75 assenti. Probabilmente, però, al momento di fare questa dichiarazione, Zingaretti – che si trovava a Reggio Calabria per la manifestazione dei sindacati – non aveva ancora scorso con attenzione la lista degli assenti. Dove figurano ben sei componenti della sua segreteria, appena nominata e bollata dai renziani come un covo di fedelissimi del nuovo leader.

Mancavano infatti i deputati Giorgis, Morassut e Braga, oltre al presidente del partito Gentiloni e ai due vice segretari Orlando e De Micheli. Praticamente tutti quelli che, componenti della segreteria, sono anche deputati. Mancava anche il capogruppo Delrio, invitato permanente in segreteria, lui però non era assente ma in missione. Le spiegazini, dunque, Zingaretti potrà cominciare a chiederle ai suoi più stretti collaboratori.
Proprio l’abbondanza di deputati in missione (nel complesso 91 dichiarati e 48 effettivi nel voto finale) ha contribuito a tenere bassa la quota per la maggioranza assoluta (comunque non richiesta dalla votazione) e a garantire alla maggioranza un passaggio senza rischi. Infatti, anche se tutti i deputati assenti del Pd fossero risultati presenti, e come loro anche tutti gli assenti di Leu (11 sui 14, il 78% del gruppo), il risultato finale non sarebbe cambiato. Il decreto crescita, infatti, è stato approvato con 270 voti favorevoli (tutti di Lega e 5 Stelle, uno solo dal gruppo misto), 49 astenuti e 33 contrari. Moltissimi gli assenti anche nei gruppi di Forza Italia e Fratelli d’Italia che hanno scelto l’astensione. Anche in questo caso, se pure le “opposizioni” di destra fossero rimaste in aula, l’esito non sarebbe cambiato. Neppure tutti i voti contrari e tutti i voti di astensione disponibili sulla carta avrebbero potuto rovesciare le conclusioni e mandare sotto il governo.

Ma la scena, venerdì, alle otto di sera, è stata comunque significativa. I deputati che avevano resistito fino all’ultimo voto elettronico su un ordine del giorno, sono rapidamente spariti – compreso il presidente della camera Fico che ha lasciato la poltrona alla vice presidente Spadoni – nel momento in cui sono cominciate le dichiarazioni di voto finali. Passaggio in genere non breve, che alcuni rappresentanti dei gruppi hanno allora deciso di abbreviare per rispetto ai pochi supersititi in aula, tutti residenti a Roma o disponibili a perdere l’ultimo treno o l’ultimo aereo. Molti hanno scelto di non parlare e depositare il testo dell’intervento, venendo accolti dagli applausi di gratitudine dei due gruppi di maggioranza. Notevole per brevità la performance del deputato Tabacci: «Presidente, contrariamente alle mie abitudini, dichiaro – anche in relazione all’evidente interesse dell’assemblea – di depositare il mio intervento, in modo che resti agli atti il voto contrario della componente +Europa-centro democratico». Agli atti, però, è rimasta solo l’intenzione: poco dopo, al momento di dire sì o no, i tre deputati del gruppo erano spariti.