La caduta di Conte e la nascita del governo Draghi hanno rianimato i renziani rimasti “in sonno nel Pd”. Da alcuni giorni, il “fuoco amico” è ripartito alla grande: prima sulle quota rosa mancate, poi sull’intergruppo in Senato con M5S e Leu per creare un coordinamento della ex maggioranza nel nuovo campo di battaglia delle larghe intese. Vade retro, dicono dalle correnti di Lorenzo Guerini e di Matteo Orfini: «Basta alleanze con M5S, sono una gabbia».

L’obiettivo è chiaro: fatto fuori Conte, ora l’obiettivo è il Nazareno, per sostituire Zingaretti e impedirgli di compilare le liste per le politiche. Come? Con un congresso da convocare al più presto. Lui, a differenza di Renzi, non prende a schiaffi ogni due per tre gli avversari, con appellativi tipo «gufi» o frasi tipo «vi asfaltiamo». O semplicemente ricordando loro di aver vinto le primarie meno di due anni fa con il 66%. Zingaretti difende il fortino con i suoi modi, sempre preoccupato di non strappare il fragile tessuto interno del Pd.

Ieri però ha replicato, su Rai1: «Io ho una sola linea: un Pd forte e un’alleanza vincente. Un partito forte nei contenuti, ma bisogna preoccuparsi anche di far vincere quei valori e nelle città costruire alleanze vincenti». Poi si è lamentato delle critiche fatte sui giornali o in tv e non di persona, o negli organismi di partito. Vecchio problema. «La destra italiana è fatta di tre grandi partiti molto diversi tra loro, ma anche molto molto uniti», aggiunge.

Quanto all’intergruppo, sgradito a molti parlamentari di Base Riformista, «mi pare che oggi Marcucci», il capogruppo Pd al Senato, «abbia detto chiaramente che è una sua iniziativa». «In ogni caso non accenderei troppi riflettori su questo strumento che può essere utile».

Poi manda un altro messaggio ai dissidenti: «Io ho preso un partito marginale e sconfitto, oggi è un partito centrale con una rete di alleanze. Quindi non cavalchiamo troppo questo tema. Un partito come il Pd deve avere una sua identità, ma anche preoccuparsi di essere insieme agli altri».

Al Nazareno hanno capito l’antifona. E del resto, spiega un parlamentare molto vicino al segretario, «è lo stesso schema che volevano applicare in settembre, se avessimo perso le regionali: far saltare Zingaretti per far rientrare Renzi nel Pd. Allora andò male per loro, perché le regionali le abbiamo vinte noi. Non gli è bastata…».

No, perché lo schema è lo stesso. L’unica differenza rispetto a settembre è che ora Stefano Bonaccini, unica personalità vicino agli ex renziani in grado di competere alle primarie, è concentrato sull’emergenza Covid, e non vuole essere tirato in mezzo alle faide di partito.

«I nostalgici di Renzi puntano a destabilizzare Nicola alzando una polemica al giorno», ragiona ancora il parlamentare. «Con Bonaccini segretario, vorrebbero far tornare Renzi, la Boschi e Bonifazi, destinati a restare fuori dal Parlamento alle prossime elezioni visto il fallimento di Italia Viva. Vogliono tornare al 2018, col Pd al minimo storico e senza alleati. Vogliono un partito di perdenti, piccoli e isolati…».

Sul governo, Zingaretti spiega di aver apprezzato nel discorso di Draghi «il richiamo forte e corretto alla responsabilità nazionale». «Questo non vuol dire che la politica è scomparsa, che il Pd è uguale alla Lega, ma in questo momento occorre dare il segnale che la politica può collaborare sui grandi problemi del Paese».

Sull’incontro dei giorni scorsi con Salvini, spiega: «Ci è sembrato corretto incontrarci, rimaniamo forze alternative, ma ora oltre alle parole serve la coerenza dei comportamenti. Quello che ho detto a Salvini vale anche per me: basta con la fibrillazione delle bandierine da mettere, o delle battute quotidiane, ora si va avanti col programma di governo».