Alle tre del pomeriggio l’aula Tevere della Regione Lazio esonda di sindaci. Fuori fa caldo, dentro pure: sono arrivati in più di duecento, sono civici o di partiti di centrosinistra, ma tutti hanno sostenuto Zingaretti. All’indomani dei ballottaggi – nel Lazio il centrosinistra e le civiche hanno vinto ovunque, a Santa Marinella, in due municipi romani, a Formia, Arpino, Velletri, Fiumicino, tranne a Viterbo – il presidente li riunisce per chiarire che «l’alleanza del fare» non smobilita. Anzi. Ci sono i protagonisti di vittorie locali, come Alessio Pascucci, giovane sindaco di Cerveteri fondatore con Federico Pizzarotti della rete “Italia in Comune”; Orlando Pocci, che a Velletri ha battuto il candidato leghista; Amedeo Ciaccheri, il trentenne che grazie a una coalizione larga (dalla Strada, intesa come centro sociale, al Pd) oggi è presidente del terzo municipio di Roma.

SI PARLA DI SPORTELLI e semplificazione burocratica, il dibattito politico resta fuori. Ma è chiaro che nell’aula c’è la foto del «modello» che Zingaretti vuole esportare a livello nazionale. Verso le primarie di un Pd «rigenerato». A margine, il governatore dribbla le domande sul congresso. Deve svolgersi «prima delle europee e non essere il congresso autoreferenziale di un partito ferito, ma una occasione di discussione costituente, aperta alla società», dice. Chi ci parla quotidianamente giura che stavolta Zingaretti ha intenzione davvero di lanciarsi alla guida del partito. «Ma prima il congresso deve essere convocato», spiega.

TANTO ATTIVISMO preoccupa i renziani, che invece un candidato non ce l’hanno. E che cercano da subito di ridimensionare Zingaretti: ha vinto, ma perché nel Lazio «la destra era divisa. Fosse stata unita avremmo perso», sottolinea il presidente Orfini al manifesto. I renziani hanno provato a rimandare l’assise oltre l’immaginabile. Renzi non ha deciso cosa fare, è tentato dall’abbandonare la barca del Pd alla deriva, ma dopo le europee.

C’È CONFUSIONE sotto il cielo. Oggi l’ex ministro Calenda lancerà il suo «manifesto repubblicano» per una «lista civica nazionale». Iniziativa che occhieggia a Renzi. «Ricorda Scelta civica di Monti. E non è andata bene», lo liquida Andrea Orlando.

ZINGARETTI CERCA DI TENERSI fuori dalle beghe: «Io sono un punto di riferimento perché a differenza degli altri non parlo solamente». Ma poi lancia un appello al reggente Martina: «Mi aspetto che Maurizio faccia una proposta che tenga conto anche di tutte le opinioni che si stanno esprimendo in queste ore. Quello che è successo deve spingersi a muoverci in uno spirito di collegialità verso l’avvio di un congresso del partito».

«AVVIO» È LA PAROLA CHIAVE e potrebbe essere anche la formula magica dell’accordo. Perché nel Pd in realtà nessuno chiede un congresso a tamburo battente. I renziani spingono perché all’assemblea nazionale del 7 luglio il reggente Martina venga eletto segretario: meglio lui, garante anche dell’ex maggioranza – del resto era il vice di Renzi fino al 4 marzo – che un segretario vero eletto con il mandato di «derenzizzare» il Pd. Nessuno si oppone apertamente al congresso: «La riflessione è sui tempi», c’è chi spiega in Transatlantico, «in autunno o meglio nel 2019 con prima una conferenza politico-programmatica che prepari il congresso vero e proprio?».

MA PER ORA L’ACCORDO NON C’È. «Ed è ancora molto lunga», spiegano invece al Nazareno. Il reggente è descritto come «realista» e rassegnato al suo ruolo a tempo. Ma la riunione di caminetto fra capicorrente, convocata per oggi, è saltata. «Era un’iniziativa di Martina ma non l’ha seguito nessuno», stringe le spalle un renziano.

DALL’ALTRA PARTE c’è Orlando che ieri ha presentato le sue proposte di modifica al jobs act e alla legge Fornero: tanto per iniziare ufficialmente l’autocritica. «Chiediamo si apra una fase costituente, un percorso che abbia come esito il congresso. Se c’è un accordo, vorremmo che questo congresso si celebrasse con regole nuove. Sarà necessario anche un ragionamento su come coinvolgere iscritti ed elettori e coloro che in qualche modo continuano a guardare al Pd». Ma se l’accordo non c’è «piuttosto che rimanere nel limbo, andiamo a congresso con le regole vecchie». È anche la linea di Franceschini: «L’unica cosa che non si può fare è far finta di niente e stare fermi. Sarebbe più lineare andare subito al congresso».