Dieci giorni dopo aver visto il burrone, con l’esplorazione di Fico fallita al grande tavolo di Montecitorio il 2 febbraio, Nicola Zingaretti tira un sospiro di sollievo. La maggioranza giallorossa con M5S e Leu, dopo giorni di travagli, si avvia a fare da «asse portante» di quella di Draghi.

Al netto del via libera unanime della direzione dem (senza sorprese), al Nazareno sono soddisfatti per la decisione del M5S (definita «molto importante»), cui seguirà oggi o domani anche l’ok dei gruppi parlamentari di Leu che, dopo lunghe discussioni, hanno deciso di essere della partita. «La maggioranza che ha sostenuto lealmente Conte prosegua e diventi asse portante del governo Draghi», sintetizza il capogruppo di Leu alla Camera Federico Fornaro, convinto che alla fine anche Nicola Fratoianni e Sinistra italiana diranno sì.

E Zingaretti: «Abbiamo fatto bene a investire sull’esperienza giallorossa con Conte fino all’ultimo, altrimenti oggi saremmo soli al governo con Berlusconi, Renzi e Salvini, i rapporti di forza sarebbero molto diversi». Andrea Orlando va oltre: «Senza il nostro asse con M5S l’esecutivo Draghi non ci sarebbe».

Per il governo che verrà, Zingaretti si limita a chiedere una «squadra autorevole» e pluralista e un programma «preciso e circostanziato». Altro non può fare, solo oggi saprà chi tra i dem sarà ministro oltre alla probabile conferma di Lorenzo Guerini alla Difesa: le ultime voci dicono il segretario o il suo vice Orlando, con Franceschini pronto a fare il presidente della Camera se Fico correrà a Napoli come sindaco.

Il leader Pd ha ribadito la «profonda sintonia» tra le proposte del Pd e i primi accenni del programma del nuovo premier: di qui una fiducia piena» e senza «imbarazzi». «Sarà difficile per altri (leggi: Salvini) collocare le loro proposte in questa esperienza. Noi ci saremo da protagonisti con le nostre idee». E ribadisce: «Restiamo alternativi alla Lega per cultura e concezione del mondo». «L’estensione della maggioranza può non coincidere con la sua stabilità ed efficacia», ricorda il leader Pd. Questo è stato detto a Draghi, da Leu con ancora più forza, ma «non abbiamo posto veti». Toccherà alla Lega ora dimostrare che sull’Europa non ha fatto solo «capriole verbali».

Nella replica il segretario dedica molti minuti alla difesa dell’alleanza, a partire dalle prossime comunali ma in vista delle politiche. Una difesa appassionata da chi, nella prossima sfida congressuale, userà il tema del rapporto col M5S per scalzare Zingaretti. «Basta ipocrisie, se non volete usare questa parola chiamatela “Filomena”. Fare alleanze non vuol dire rinunciare alla propria identità, anzi. Guai a coltivare l’illusione di tornare alla solitudine del 2018». «Dissenso forte sulla subalternità al M5S», mette a verbale Francesco Verducci a nome dell’area di Orfini.

Niente congresso, per ora, ma sì a una discussione profonda «per ridefinire la nostra funzione». Per questo ci sarà «entro febbraio» una assemblea nazionale. Una delle sfide chiave di questa nuova fase, che «non sarà semplice» ammette Zingaretti, sarà combattere l’idea di una «resa della politica» davanti ai tecnici. Fare fronte alla «marea antipolitica che punta a delegittimarci». E dunque l’esigenza di «rigenerare» il partito, mettere con radicalità mano alla sua struttura e radicamento».

Per ora il segretario incassa l’ennesimo voto all’unanimità della direzione da quando si è aperta la crisi. E avverte: «Occorre che tale unità sia sostanziale, che non si alluda a contrapposizioni sulla linea. Altrimenti sarebbe utile e giusto esplicitare il dissenso, per trasparenza». Ieri il suo più probabile competitor, Stefano Bonaccini, ha chiuso la porta a chi (gli ex renziani e l’area Orfini) vorrebbe lanciare subito la sfida del congresso: «Non è il tempo di conte interne, le priorità sono altre».