Quando nel 1988 allo stadio di Harare, capitale dello Zimbabwe, Amnesty International organizzò il concerto Human Rights Now! il presidente Robert Gabriel Mugabe era un eroe della lotta per la liberazione dei popoli oppressi dal colonialismo e dall’apartheid. Primo ministro tra il 1980 e il 1987, presidente della Repubblica dal 1987 al 2017, nel 1988 Mugabe era un simbolo di libertà per tutta l’Africa e per mezzo mondo.

A QUEL TEMPO l’African National Congress (Anc) di Nelson Mandela, il quale risiedeva nella cella di Robben Island, lodava il leader zimbabwano che otto anni prima aveva sconfitto l’apartheid rhodesiana e donato l’indipendenza al suo Paese. Un illuminato, anticapitalista, anticolonialista e difensore degli ultimi.

Con la morte di Mugabe, a 95 anni, l’Anc non ha cambiato posizione, pubblicando la mattina del 6 settembre 2019 un comunicato stampa celebrativo. Amnesty International invece, e in generale le organizzazioni e i difensori dei diritti umani nel mondo, da oltre due decenni chiamavano Mugabe «il Dinosauro» denunciandone i crimini contro l’umanità e l’autoritarismo.

Una supporter dell’ex presidente (Afp)

ROBERT MUGABE se n’è andato come ha vissuto: isolato, ricoverato al Gleneagles Hospital di Singapore, una delle cliniche più esclusive del mondo, sconfitto ma celebrato persino dal suo più acerrimo nemico degli ultimi anni, il “Coccodrillo” Emmerson Mnangagwa, nuovo presidente dello Zimbabwe che grazie al sostegno dell’esercito nel 2017 ha ottenuto il potere con un colpo di stato “gentile”.

Negli anni Mugabe è stato terrorista e criminale, eroe di guerra e liberatore, politico di carriera, dittatore, tiranno detronizzato e vecchio pensionato. Una contraddizione che non si è conclusa con la morte, che prosegue ancora oggi e che proseguirà ancora: è stato il governo a pagare le spese per le cure a Singapore ed è stato il governo a pagare per il rimpatrio della salma, per la veglia funebre e per i funerali. I militari che lo costrinsero alle dimissioni lo hanno accolto all’aeroporto che porta il suo nome e ne hanno trasportato a spalla la bara. «In Africa quando muore un vecchio piangiamo perché la biblioteca è bruciata» è la risposta che la nazione ha riservato alla notizia della morte di Mugabe.

POCHI GIORNI PRIMA del decesso la stampa locale aveva reso note le ultime volontà dell’ex-dittatore il quale, disgustato dal nuovo corso del “suo” Zimbabwe, aveva fatto sapere di non voler essere sepolto al National Heroes Acre, il cimitero dei martiri e degli eroi. Un monumento nazionale a un passo dallo stadio dove si tenne il concerto del 1988, donato allo Zimbabwe dagli amici nordcoreani del “Grande Leader” Kim Il Sung. Qui è sepolta la prima moglie dell’ex-dittatore, Sarah Francesca Hayfron, amatissima e considerata «madre della Patria», accanto alla cui tomba vi è un posto vuoto, riservato a Robert Mugabe.

UN POSTO CHE POTEVA RESTARE vuoto perché l’ex-dittatore e la sua famiglia avevano scelto Kutama per la sepoltura, il luogo dove è nato nel distretto di Zvimba, ma dopo una trattativa durata giorni e conclusasi solo ieri durante la mega-veglia, a 48 ore dall’interramento, quest’ultimo desiderio di Mugabe non sarà soddisfatto.

Sono dettagli che aiutano a comprendere le metamorfosi dello Zimbabwe, del personaggio Mugabe e le contraddizioni che ne hanno distinto l’intera vita delineando la sua pesante eredità: quando fu eletto presidente alla guida dello Zimbabwe African National Union – Patriotic Front (Zanu-Pf) ricevette uno dei Paesi africani più evoluti sotto il profilo tecnologico e più solido sotto quello economico. Da un lato alzò il livello educativo (oggi tra i più alti del continente) per tutti e dall’altro accentrò il potere e le ricchezze nelle mani sue e della sua famiglia.

Dopo la morte di Sally, nel 1992, l’arrivo di Grace e il «matrimonio del secolo» con costei, lui 72 anni e lei 31 (soprannominata “dis-Grace” o “Gucci Grace”, non serve spiegare il perché), la vita di Mugabe ha avuto una svolta e, con essa, l’intera economia del Paese. Mentre la famiglia Mugabe si arricchiva, anche grazie all’esercizio del potere autoritario sulla minoranza bianca e sugli oppositori, come anche sulle ingenti risorse minerarie, lo Zimbabwe cadeva in una spirale economica negativa che perdura ancora oggi.

IL «GRANAIO D’AFRICA» non esiste più: il nepotismo e la cleptocrazia nella gestione delle proprietà terriere pubbliche e private e i gravi cambiamenti climatici hanno messo in ginocchio un’intero settore, quello agricolo, che ancora oggi fatica a risollevarsi.

«Se finiremo i soldi li stamperemo!» è la sintesi della politica economica della dottrina Mugabe. Soldi, tanti, che serviranno anche a pagare le esequie. Nel 2008 la recessione e la svalutazione del dollaro locale costrinsero il governo di Harare a stampare banconote da 100 miliardi di dollari che, al cambio, valevano 0,30 centesimi di euro.

L’eredità del Dinosauro è un’economia disastrata, la disoccupazione all’80%, una grave carenza di valuta unita a massicce dosi di svalutazione ed inflazione. Ma, come per ogni “grande vecchio” che si rispetti, l’eredità più pesante resta lo status-quo della famiglia Mugabe che, per ora, ha vinto il primo round: il conto sepoltura, che sarà probabilmente salatissimo.

 

Il muro del National Heroes Acre e lo stadio sullo sfondo (foto di Andrea Spinelli Barrile)