Come accade ai protagonisti del suo ultimo film L’insulto, il regista libanese Ziad Doueiri – e il suo lavoro – è stato al centro di un’escalation di proteste, incomprensioni, reciproci pregiudizi. Passato in concorso a Venezia, L’insulto ha vinto la Coppa Volpi al miglior interprete maschile, la prima per un attore arabo: Kamel El Basha, che nel film interpreta un capo cantiere palestinese che vive in un campo profughi di Beirut, e per riparare una grondaia litiga con Toni – libanese cristiano. Un’animosità che sfocia in una battaglia giudiziaria e riaccende così nella popolazione i rancori mai sopiti della guerra civile.

Al suo ritorno in Libano dopo il Festival di Venezia, Doueiri è però stato inaspettatamente trattenuto dalle autorità, che gli hanno anche sequestrato il passaporto, per poi rilasciarlo poco dopo: la sua colpa il «collaborazionismo con il nemico israeliano» – il film precedente di Doueiri, The Attack, è infatti girato a Tel Aviv con maestranze e attori israeliani. Per questo motivo, su ordine del sindaco, L’insulto è stato anche ritirato dalle sale di Ramallah. In quelle italiane uscirà invece il 6 dicembre.

C’è un elemento autobiografico nella storia del film?
L’idea nasce di un incidente che mi è successo circa quattro anni fa. Stavo innaffiando le piante nel terrazzo di casa, e dell’acqua è caduta su uno degli operai palestinesi che lavorava per strada: abbiamo finito per dirci delle cose molto pesanti. Io poi sono sceso a scusarmi, ma da quel momento ho cominciato a pensare a una trama che prende avvio proprio da uno stupido incidente come questo, che però si complica sempre di più. Quando ho finito il trattamento l’ho fatto leggere alla mia ex moglie (Joelle Touma, anche cosceneggiatrice del film, ndr) e lei ha detto che si immedesimava in quello che avevo scritto, nonostante venga da una famiglia cristiana di estrema destra – profondamente anti-palestinese durante la guerra civile – e io da una famiglia musulmana, laica e di sinistra – alcuni dei miei parenti sono anche morti combattendo con l’Olp.

Il suo film precedente le ha però creato dei problemi proprio a causa della questione palestinese.
The Attack è stato bandito in Libano e in tutto il mondo arabo per le pressioni del BDS (il movimento per il boicottaggio di Israele, ndr). Per questo ho riscritto la sceneggiatura di L’insulto, a cui lavoravo già da anni, proprio come risposta alle persone che avevano fatto bandire il mio film senza averlo neanche visto, sennò saprebbero che simpatizza con la causa palestinese. Quando poi sono tornato da Venezia, hanno cercato di far bandire anche L’insulto – ma non ci sono riusciti perché girandolo non avevo infranto la legge libanese. Per questo hanno tirato fuori un vecchio file su di me, risalente al film precedente, e mi hanno arrestato. Ma non sono state le autorità a sporgere denuncia: è stato ancora una volta il BDS. Stavolta però sono riusciti a bloccare la proiezione del film solo a Ramallah.

«L’insulto» è un dramma giudiziario, come ha lavorato con questo genere?
Ho studiato cinema negli Usa e ho lavorato per moltissimi anni come assistente nel cinema americano, quindi sono stato influenzato dai film giudiziari hollywoodiani. Durante le riprese ho rivisto molte volte Il verdetto e La parola ai giurati di Lumet, Philadelphia di Demme, e quello che per me è uno dei film più belli di tutti i tempi: Vincitori e vinti di Stanley Kramer. Sapevo sin dal principio di voler fare un dramma giudiziario, perché c’è un elemento legale alla radice stessa della storia: può essere considerato un crimine insultare la cultura di una persona?