«Scavare fossati-nutrire coccodrilli» ripercorre la ricca produzione del fumettista, combinando locandine, poster, tavole, disegni, animazioni, copertine di dischi e video-interviste. Ne abbiamo parlato con il protagonista.

La mostra è aperta da una tua biografia divisa per anni. Dentro, però, le vicende individuali sono poche. Hanno più spazio Sole e Baleno, Öcalan, il G8 di Genova, indymedia, Aldrovandi, Kobane, la Valsusa. Perché?

I miei lavori un po’ più individuali, tipo il blog o i libri, hanno un pubblico vastissimo e sono facilmente reperibili. Quando mi hanno proposto di fare una mostra più ampia mi è sembrato interessante riprendere dall’armadio materiali meno conosciuti. Sono quelli più collettivi e raccontano una storia che non è solo mia, ma di una comunità e di un pezzo di paese. Quasi tutte le cose fatte fino al 2011 si può dire siano collettive. Quando ho potuto l’ho segnalato, anche se non sempre è stato possibile. Per alcuni manifesti, ad esempio, non si può risalire a tutte le persone che ci hanno messo qualcosa. Magari sono usciti da assemblee intere in cui ognuno diceva la sua. Rimane solo il nome mio, ma voglio si capisca che appartengono a tanti.

Nella cultura occidentale la figura dell’autore è plasmata intorno all’idea del singolo individuo creatore di un’opera. Nella mostra, invece, racconti processi creativi collettivi, assembleari. Che tipo di autore ti senti?

Mi sono sempre sentito un anello di una catena in cui tante persone condividono idee. Sono la parte finale di quel ragionamento e metto su carta ciò che viene immaginato collettivamente. La personalizzazione dell’autore come figura insindacabile, che fa cose che non si possono discutere o mettere a verifica, è una roba che mi ha sempre disturbato. Devo dire che la comunità che ho intorno non mi ha mai trattato così. Tutti si sentono in diritto di chiedermi ogni volta 100mila modifiche. Però questa cosa, tutto sommato, mi fa pure piacere.

Ormai riesci a stare al Maxxi e al Forte Prenestino facendoti apprezzare in entrambi i luoghi. Non è facile. Soprattutto venendo da un «ambiente antagonista» che non ama il mainstream e non ne è amato. Come hai fatto?

Con grande fatica e molta paraculaggine. Da un lato, ho sempre cercato di mantenere i paletti condivisi un po’ da tutto il mondo antagonista. Di fare un percorso nel mainstream senza mai tradire quella storia. Magari omettendo una serie di passaggi, soprattutto nei primi anni, ma non nascondendo l’ambiente da cui vengo. Dall’altro, invece, il lavoro è molto più pensato di quanto sembri, super graduale. All’inizio la parte dei fumetti che uscivano in libreria ha quasi viaggiato su un binario parallelo che non incrociava mai la produzione dei centri sociali. Così molte persone hanno potuto scegliere ciò che preferivano con il beneficio dell’inventario. Magari tu la roba degli scontri di piazza non la condividi, ma fai finta di non vederla perché nei fumetti emerge poco. Ogni anno ho provato a mettere un mattoncino in più, per far avvicinare gradualmente quelle due linee e disporre l’animo del lettore un po’ meglio verso il mondo nostro. Per fargli capire pian piano chi eravamo, che non siamo marziani. Alla fine ho tirato una diagonale con Kobane Calling, il primo libro super politico che però parlava al mainstream. E ha funzionato. Secondo me perché ho provato a essere il più inclusivo possibile, contestualizzando molto le cose che riguardano il mondo nostro. Tutto sommato mi sembra che il pubblico abbia reagito bene. Nessuno m’ha detto «sei una zecca, fai schifo». Sono stati questo equilibrio e lo spostamento graduale a far incrociare i due mondi.

In un passaggio della bio fai cenno al «sassolino», strumento narrativo differente dalla Pedagogia politica militante con la P maiuscola che secondo te «funziona fino a un certo punto». Cosa intendi?

Non ho la pretesa di evangelizzare nessuno, né di convertire le persone. Altri magari ci riescono, io no. Quello che vorrei fare con i «sassolini» è una cosa molto più modesta, ma che in questo momento in questo paese sarebbe oro. È creare un ambiente un po’ più friendly nei confronti delle nostre istanze. Non è che spero che chi legge la roba mia diventi uno di noi. Mi basterebbe che quando ci vede al telegiornale non pensi che dobbiamo andare tutti in carcere perché magari attraverso i miei fumetti gli è entrato un dubbio in testa e si fa due domande in più.

Questo obiettivo l’hai perseguito lavorando molto sul linguaggio. Ad esempio in Kobane Calling, dove sei riuscito a trasmettere messaggi molto radicali a un pubblico più ampio di quello raggiunto in genere dai codici comunicativi dei movimenti.

Nel mio linguaggio ci sono pregi e difetti. È vero che per certe cose la comunicazione dei movimenti è un po’ chiusa e magari non ha saputo intercettare dei cambiamenti. Però è vero anche che ha un patrimonio, una ricchezza e una profondità che evidentemente il linguaggio mio non ha. Invece, quello su cui ho puntato un botto sono due cose: non lasciare indietro nessuno, usare dei riferimenti pop riconoscibili. A volte mi sembra che le analisi nostre o i comunicati, se messi in mano a un ragazzino, diano per scontato un sacco di cose che noi trattiamo come fossero patrimonio di tutti. Sono stato a Genova per una presentazione in cui c’erano dei pischelli che frequentavano la Diaz. Non sapevano nulla di ciò che accadde nella loro scuola nel 2001. E noi diciamo «Genova», senza nominare neanche il G8. La gente non sa manco di che parliamo a volte. Questo ti dà il senso. Quindi ho provato a fare un lavoro che fosse inclusivo da quel punto di vista, che spiegasse bene tutto, magari a volte in maniera un po’ didascalica. L’altro fatto è che cerco di richiamare un bagaglio di cultura pop che riguarda tutti. Non saranno i riferimenti ideali per i movimenti, ma sono noti a chiunque sia cresciuto negli anni nostri fuori dai nostri ambienti. Secondo me questi riferimenti sono utili perché danno alle persone degli appigli in cui riconoscersi.

Al di là della scrittura e del disegno, parte del tuo lavoro è metterti al servizio di movimenti sociali, battaglie politiche e spazi occupati. Come interpreti questa funzione così poco comune tra le personalità pubbliche?

Secondo me il problema è pensare di poter portare avanti delle istanze politiche da singoli, cioè svegliandoti la mattina e dicendo la tua, come un intellettuale illuminato. Magari pretendendo poi di spostare il dibattito sulla verità di cui ti senti portatore. Questa roba qua non si può fare perché nessuno da solo è portatore di niente. Per me, l’unico modo di intervenire in un dibattito politico è avere alle spalle un confronto o un mandato collettivo. Non potrei parlare di Tav o Kurdistan se non avessi fatto prima le assemblee. Se devo restituire qualcosa al mondo non può essere ciò che penso io da solo, ma il prodotto di un processo collettivo.

Dopo che hai firmato il manifesto del corteo No Tav dell’8 dicembre hai ricevuto alcune critiche. Perché hai deciso di rispondere?

In questo periodo sembra che quella storia sia stata cancellata dalla testa di un sacco di persone. Alcuni credono, non capisco come, che il No Tav sia un’istanza di questo governo. Non solo dei 5 Stelle, ma anche di Salvini. La gente mi ha scritto che Salvini si sarebbe rivendicato il corteo, quando lui è un Sì Tav. C’è proprio una rimozione. Forse perché al momento non esiste un soggetto riconoscibile a sinistra e per un sacco di ragazzini questo vuoto è riempito dal Pd, identificato come struttura di opposizione. E siccome il Pd è a favore del treno pensano che l’unica posizione di sinistra possibile sia quella. Così tutto quello che è il No Tav viene messo insieme a una specie di oscurantismo ignorante che va dai No Vax alle scie chimiche. A me questa roba sembra terribile. Raccontare la storia del movimento per farla vivere in uno spazio politico antagonista, di sinistra, mi sembra fondamentale in questo scenario.