Un anno fa quando è stato presentato a Berlino, gli argomenti trattati dal documentario Zero Days di Alex Gibney – da oggi in sala – sembravano usciti direttamente da una spy story, un thriller di spionaggio.
Il film ricostruisce infatti – districandosi in una selva di no comment da parte di chi sa e non può parlare – la storia di Stuxnet, un virus informatico in grado di «auto-replicarsi» sviluppato da Stati uniti e Israele per monitorare le centrali nucleari iraniane, poi modificato dagli israeliani allo scopo di comprometterle e infine sfuggito di mano ai suoi stessi creatori. «Ho cominciato a interessarmi al mondo informatico con il mio film sulla vicenda di Wikileaks, We Steal Secrets: The Story of Wikileaks – racconta il regista – e la storia di Stuxnet rappresentava una nuova e ulteriore dimensione dell’argomento: cosa succede quando i computer si trasformano in armi?».

Un dilemma posto proprio dall’avanzata incontrollata e incontrollabile di Stuxnet, che comincia ad apparire in computer e sistemi informatici di tutto il mondo e mette in evidenza i potenziali effetti catastrofici di una cyber-war, una guerra informatica . «La storia di Stuxnet, un’arma ’autonoma’ che si infiltra in una centrale nucleare – dice Gibney – ricorda quasi la trama del Dottor Stranamore, aveva già in sé gli ingredienti della spy story».

Tanto più che di queste armi non si può parlare: come spiega nel film l’ex direttore di Cia e Nsa Michael Hayden nascono infatti nel mondo dello spionaggio, per sua natura ammantato di segretezza proprio come nei film di James Bond che non a caso oggi trattano di terroristi informatici come in Skyfall.
Per questo Gibney incontra così tante resistenze quando cerca di ricostruire la genesi del virus: nessuno ne può parlare perché gli Stati uniti non riconoscono ufficialmente neanche la sua esistenza, seppellita nei segreti di Stato nonostante Stuxnet si sia manifestato anche al di fuori delle centrali iraniane. «Ci dovrebbe essere sempre un equilibrio tra la ragion di Stato e la necessità di una minor segretezza», osserva il regista che nel suo documentario protegge i suoi informatori – le «gole profonde» che hanno fornito delle informazioni classificate sul virus – facendole rappresentare dal «fantasma virtuale» di un’attrice.

«Il paradosso al cuore di Stuxnet è che tutti erano al corrente della sua esistenza, ma nessuno era autorizzato a parlarne. A mio parere è una cosa perversa, che esemplifica perfettamente come l’eccessiva segretezza possa essere estremamente dannosa per tutti noi, tanto da destabilizzare gli equilibri mondiali».
Il virus «protagonista» di Zero Days è infatti solo un piccolo ingranaggio della guerra del futuro, la cyber warfare potenzialmente dannosa tanto quanto un conflitto atomico.

«Con questo film speravo di suscitare una discussione, di far nascere un dibattito su argomenti di cui di solito non si parla», dice infatti Gibney, che auspica una minor segretezza proprio perché gli stessi Stati possano discutere le regole di questo mondo a metà fra lo spionaggio e gli armamenti: «Perchè venga approvata una convenzione come quella sui prigionieri di guerra o sulle stesse armi nucleari è necessario che i governi siano nella condizione di poter parlare apertamente delle armi informatiche».

A un anno dal suo debutto, Zero Days esce sui nostri schermi sullo sfondo dei dossier dei servizi segreti americani su come la Russia di Putin abbia compromesso e indirizzato le elezioni statunitensi. Come nel documentario di Gibney, realtà e thriller sono sempre più vicini.