«Del congresso parlo dopo i ballottaggi. Ma se ci sarà un rinvio, sarà ‘not in my name’». Ieri aal Camera Andrea Orlando spiegava il suo no a rimandare alle calende greche il congresso Pd. Dopo l’assemblea a vuoto del 19 maggio, al Nazareno si è preso atto dello stallo interno. Il morale è a terra: la cassaintegrazione di quasi tutti i funzionari e l’inchiesta sul cosiddetto «Sistema Parnasi», che sfiora anche il palazzo dem non aiutano. Quanto alla segreteria, Gentiloni non è disponibile alla corsa e così Graziano Delrio, come ha anticipato Il Foglio. Anche a Nicola Zingaretti, altro papabile, non dispiacerebbe rimandare. In soldoni: non c’è nessuno disposto a guidare il Pd. Almeno finché non sarà chiaro il ruolo dell’ex segretario Renzi. Che non molla i social né rallenta le enews. Anzi, la minoranza è sempre più insofferente per il suo attivismo: «Anche sulle commissioni ha deciso tutto lui».

Insomma al Pd non resta che Martina. Il reggente potrebbe essere eletto segretario dall’assemblea, forse già il 7 luglio. Dopo i ballottaggi che potrebbero certificare lo stato di esistenza in vita del Pd, nonostante la batosta di marzo. Il reggente nato traballante fin qui sembrava destinato a uscire di scena in breve. Lo dimostra la sufficienza con cui i renziani lo trattano al Nazareno. Eppure la sua elezione è l’unica soluzione per dare al partito un minimo assetto stabile. Magari affiancandogli un vice renziano light (si fa il nome di Matteo Ricci). E così il congresso ventilato per novembre slitterà al 2019, forse persino dopo le europee. «Un congresso ora non avrebbe senso. Perché dovremmo avviare uno scontro interno quando il primo turno delle amministrative ci ha detto che qualche segnale di ripresa si intravede?», spiega un renziano di rango. Meglio non fare niente che fare errori, in attesa che Renzi si metta il cuore in pace e si apra lo spazio per un segretario vero. Non così per le minoranze. «Leggo di rinvii del congresso del Pd e di accordi per nuovi assetti tutt’interni alle solite logiche di potere. Mi paiono esercizi curiosi dinanzi alla enormità di una sconfitta non ancora scavata nelle sue cause e a una destra aggressiva che detta l’agenda», dice Gianni Cuperlo. E se sarà rinvio anche lui avverte: «Not in my name».