Abbiamo entrambi una formazione storica, e nel lavorare sulla letteratura abbiamo sempre cercato di intrecciare forma e storia: non avremmo pensato che un piccolo esperimento sulle simulazioni potesse produrre una drastica scissione dei due lati del lavoro. Ma come spesso accade in laboratorio, la «pratica» del nostro esperimento prese il sopravvento, e quelle piccole decisioni che, mentre le si prende, sembrano per metà ovvie e per metà irrilevanti, non lo erano affatto, e avevano finito con l’incanalare la riflessione entro uno scenario che ne coartava i movimenti. Cominciare con la costruzione del modello, e passare alle opere storiche vere e proprie al solo scopo di «metterlo alla prova», aveva di fatto completamente subordinato la storia alla morfologia.

Questa era l’ipotesi, l’idea; la storia, un test. Il progetto (mai realizzato) di creare un «sistema periodico delle reti drammatiche», come finimmo col chiamarlo, esprimeva alla perfezione il nostro punto d’approdo: se è lecito sognare, sogniamo un sistema di tutti i possibili risultati morfologici – di tutte le «forme che la teoria è in grado di immaginare», come dice il D’Arcy Thompson di Crescita e forma. Di tutte le forme, a prescindere dal fatto che siano mai effettivamente esistite. L’immaginazione morfologica era tutto; la realtà storica, assai poco.

Una realtà alternativa
Cominciamo col dire che una rete drammatica è un diagramma delle interazioni tra i personaggi di un dramma, presentate come altrettante connessioni («archi», o edges) tra «nodi» diversi. Il risultato è, non l’Amleto, ma un sistema simile all’Amleto; e va da sé che, nel passaggio, qualcosa si perde. Ma questo vale per qualsiasi analisi, e il punto vero è un altro: essendo una versione in scala ridotta dell’oggetto reale, la rete può essere aperta, smontata, osservata da ogni parte, ricostruita mille volte, aiutandoci a capire meglio come funziona l’Amleto vero e proprio.
Non è questo il modo consueto di analizzare la letteratura, ovvio. Non parliamo di opere, ma delle reti che se ne possono estrarre; e in realtà non parliamo neanche di queste, ma delle loro «simulazioni». Il termine ha avuto a lungo un significato peggiorativo, ma in anni recenti, come ha osservato Evelyn Fox Keller, ha perduto «il senso di inferiorità ontologica ed epistemologica che aveva in passato – il senso del “fittizio” (e) ha ormai raggiunto lo status di una “realtà alternativa”».

Una realtà alternativa. È per questo che le simulazioni sono così rare nella critica letteraria: in una disciplina dove gli oggetti di studio sono esplicitamente dati – testi trasmessi con attenzione, e spesso con reverenza, di generazione in generazione – l’idea di darne una versione «alternativa» oscilla tra l’assurdo e il sacrilego. Ma ne vale la pena. Facciamo un esempio: I Persiani, la prima tragedia di cui abbiamo il testo completo.
Cinque personaggi, o nodi, legati da archi il cui spessore («peso»), e le cui teste di freccia, sono proporzionali alla quantità e alla direzione del dialogo: il Messaggero parla molto ad Atossa, molto poco al Coro, e niente affatto a Serse o Dario; Dario parla ad Atossa più di quanto lei parli a lui, e così via. Questo era il tipo di rete che dovevamo istituire, e, all’inizio, ragionammo più o meno così: visto che il Messaggero pronuncia il 19.1% dei versi, Serse il 6.1%, e via dicendo, costruiamo un dado digitale a 100 facce, 19 delle quali dicano «Messaggero», 6 «Serse», e così via per tutti gli altri personaggi. Poi tiriamolo cento volte, e vediamo che succede: la simulazione copia la rete, senza però spiegare alcunché. E invece quel che volevamo era sì riprodurre la rete, ma al fine di comprenderne meglio la logica. Altrimenti, non avrebbe avuto senso. La realtà alternativa serve a capire meglio la realtà reale, non a rifarla. La realtà c’è già: non c’è alcun bisogno di farne una copia, a meno che non riveli qualcosa di nuovo.

La riduzione del dramma al dialogo, che è alla base di tutte le nostre reti, è naturalmente un’ipotesi sulla struttura drammatica, che andrebbe spiegata e discussa in quanto tale. Abbiamo illustri precedenti, dal teorico e drammaturgo secentesco D’Aubignac, che aveva notato come «Parler, c’est agir», allo Hölderlin delle «Note all’Antigone» («La parola greco-tragica dà la morte (…) l’effettiva uccisione con le parole»); alle note sulla «lutte entre personnages parlantes» di cui scrive Eugène Vinaver a proposito dell’opera di Racine, all’affermazione di Peter Szondi, nella Teoria del dramma moderno, secondo cui «è dalla possibilità del dialogo che dipende la possibilità del dramma».

Lasciammo poi perdere il dado a cento facce, e decidemmo di utilizzare un algoritmo (un «modello») che non avesse alcuna idea di quale dovesse essere la struttura finale della rete; e che procedesse uno scambio linguistico alla volta, rendendo così più trasparente possibile il processo di costruzione della rete. E visto che il dialogo è alla base di tutto, l’algoritmo comincia con lo scegliere chi dovrà parlare per primo. In partenza, tutti i personaggi hanno le stesse probabilità; nei Persiani, 20% a testa. L’algoritmo tira a sorte e ne sceglie uno – diciamo: A. Entra in gioco il primo parametro, che attribuisce a A un «punteggio» aggiuntivo: se il parametro è fissato a 1.1, per esempio, il 20% iniziale di A è moltiplicato per 1.1, e la prossima volta che si tratterà di selezionare chi parla, A avrà una probabilità un po’ più alta di essere scelto – 22% contro 19.5% — degli altri quattro (….) Dato che il parametro determinava il grado di centralizzazione della rete, lo chiamammo «Centralità», e passammo al secondo punto; una volta stabilito chi parla, bisogna scegliere a chi egli parli. La logica rimane la stessa: all’inizio tutti i personaggi hanno le stesse probabilità; poi il modello tira a sorte, sceglie – poniamo: B – e il secondo parametro attribuisce a B un punteggio ulteriore, rendendo così più probabile che in futuro B sia di nuovo scelto come interlocutore di A. L’arco tra A e B ne verrà rinforzato rispetto ai nessi tra A e C o A e D. Il risultato è, intanto, la visualizzazione di una gerarchia tra i personaggi.

Introducemmo poi un secondo parametro, e lo chiamammo: «Fedeltà», perché crea un legame duraturo tra due personaggi: la gerarchia, ora, è tra i loro rapporti: il primo parametro stabilisce che Amleto ha più probabilità di parlare di Claudio; il secondo, che ha più probabilità di rivolgersi a Orazio che non a Laerte. Presi insieme, danno forma a quella diseguaglianza che è tipica delle reti drammatiche.
Una volta scelto chi parla e chi ascolta, scegliemmo un terzo parametro – «Reciprocità» – determinante la probabilità che B risponda alle parole di A. A teatro, un personaggio di solito risponde a chi gli parla, e dunque «Reciprocità» deve partire con un valore vicino al 100%, e deve però anche poter scendere rapidamente fino a zero perché, prima o poi, A e B devono smettere di parlarsi affinché l’intreccio vada avanti. (Dialoghi lunghissimi, come quelli tra Vladimir e Estragon in Beckett, colpiscono proprio perché sono così improbabili).

Per poter passare da un estremo all’altro, «Reciprocità» non è fissato una volta per tutte per l’intera durata della simulazione – come «Centralità» e «Fedeltà» – ma ricalcolato ogni volta che un personaggio parla, e il suo valore è inversamente correlato al numero dei personaggi in scena: se A e B sono soli, il loro scambio ha maggiori probabilità di durare a lungo che se sono in presenza di altri. (Persino il dialogo tra Vladimir e Estragon perde dei colpi, quando entrano in scena Pozzo e Lucky.)

Riflettere sulle relazioni
Volevamo simulare la rete drammatica uno scambio alla volta, e i primi tre parametri seguono alla lettera questo principio. Visto però che il valore di «Reciprocità» dipende dal numero dei personaggi in scena, si è già andati al di là di un semplice rapporto a due, e l’ultimo parametro – «Casting» – ne tiene appunto conto. Il suo punto di partenza è il momento in cui«Reciprocità» scende a zero, lo scambio tra A e B finisce, e bisogna scegliere fra tre possibiltà di base: un personaggio che è già in scena comincia a parlare; qualcuno che non era in scena entra e comincia a parlare; oppure la scena finisce e ne comincia un’altra. «Casting» controlla queste possibilità in base a un’equazione che – come quella di «Reciprocità» – è correlata al numero di personaggi in scena: con solo due personaggi, introdurne uno nuovo è piuttosto probabile (persino Godot finisce col mandare il Ragazzo in scena); via via che la scena si riempie, però, la probabilità deve scendere fino a zero, o si finirebbe nel caos più completo.

«Il termine “morfologia” significa studio delle forme», scrisse Vladimir Propp nella Prefazione alla Morfologia della fiaba: «lo studio delle parti componenti (…) e delle loro relazioni reciproche e con il tutto». Cercare di «fare» delle reti drammatiche usando un piccolo sistema di parametri ha significato per l’appunto riflettere sulla natura di tali «parti componenti», e sulle loro «relazioni reciproche». (…)
Forse è stata tutta una spaventosa cantonata. O, forse, questa vicenda è il sintomo di una oggettiva antinomia: il segno di come la morfologia, quando segue il suo demone – e cos’è la ricerca, se non seguire il proprio demone? – possa radicalmente allontanarsi dalla storia. In tal caso, lungi dall’essere in qualche modo predestinato, il loro incontro sarebbe un che di altamente improbabile. Vale lo stesso la pena di tentare.