“La “Black Wave” jugoslava è stata qualcosa di unico nei movimenti post-Nouvelle Vague, sia per le implicazioni politiche che la trasformarono in un vero megafono contro la burocrazia socialista, che per la libertà estetica che ancora oggi, credo, si propaga in alcuni sguardi sul reale”.

Con queste parole limpide, Želimir Žilnik inizia a raccontare quelle voci lontani, sempre presenti, che riecheggiano in questi ultimi giorni al Trieste Film Festival, in una sezione dedicata al ’68 dell’Est. Protagonista la scorsa settimana, insieme al regista croato Nenad Puhovski, di un incontro dedicato alla contestazione balcanica, Žilnik, recentemente omaggiato anche durante la prima edizione del Cinepalium Fest, ha ripercorso con noi la genesi, personale e politica, del suo essere cineasta…

In questa retrospettiva triestina, il ’68 viene ripercorso da entrambi i fronti (Est e Ovest), con la proiezione di film che hanno anticipato, o beneficiato, di quel terremoto sociale e culturale. Nel suo caso invece, verranno proiettati due lavori (Lipanska gibanja e Ravi Radovi) che hanno respirato la rivoluzione nel suo farsi, seppur limitato, vista la brevità delle proteste jugoslave…

Esatto, il ’68 jugoslavo durò soltanto pochi giorni, praticamente una settimana, e proprio in quei primi giorni di giugno ho girato Lipanjska gibanja (Agitazione di giugno), un breve documentario sulle manifestazioni studentesche a Belgrado. Avevo preso parte anch’io alle proteste perché all’epoca si percepiva fortissimo il pericolo di un’occupazione della Jugoslavia e queste manifestazioni non erano soltanto un eco di quello che stava accadendo in Francia. La nostra lotta era contro i cosiddetti duchi del Socialismo e la cosa paradossale è che, dopo i primi giorni, eravamo convinti di aver acquisito il diritto di protestare visto che non venivamo fermati dalla polizia. Dopo cinque giorni di protesta però, Tito parlò in televisione e disse “Parte di questa protesta si basa su motivazioni sacrosante” ed eravamo così convinti ed entusiasti che lasciammo le strade e le università. Questo piccolo documentario è sopravvissuto quasi per caso: io vivevo a Novi Sad, giravo a Belgrado e poi ritornavo a casa per dormire. I negativi erano depositati a Novi Sad dunque mentre altri film di miei colleghi che stavano filmando (come Dusan Makavejev ad esempio) che invece vivevano a Belgrado, non sono mai riusciti a recuperare il materiale depositato nei centri di sviluppo e stampa.

Come e quando invece è arrivato a realizzare Ravi Radovi?

Un mese dopo la fine delle proteste. Era luglio ed ero ospite al festival di Pula in Croazia con due cortometraggi, Small Pioneers e Unemployed Man. Fui fermato da un produttore che mi disse “Devi fare il tuo primo lungometraggio, portami una sceneggiatura!”.

Non l’avevo ovviamente ma avevo ancora negli occhi le contestazioni di giugno e la Primavera di Praga nella testa e così ho iniziato a scrivere. Ho portato lo script e dopo pochi giorni mi chiamarono per dirmi che non avrebbero chiesto fondi statali ma avrebbero messo loro del capitale. Trovai questa piccola isola di libertà e così in novembre cominciammo le riprese di Navi Radovi.

Fin dai suoi primi lavori, si percepisce con forza l’influenza di Godard, del Neorealismo italiano ma anche della scuola sovietica…

La cultura jugoslava è sempre stata molto “disponibile” alla circolazione del cinema: tutti i grandi film internazionali arrivavano nei nostri cinema e non parlo delle cineteche ma dei circuiti “normali”. Da studente ricordo le visioni dei film di Marco Bellocchio, Roberto Rossellini, addirittura Glauber Rocha.

Per la mia generazione però la vera e propria scoperta fu il cinema sovietico perché quando ero ancora al liceo, il conflitto ideologico fra Russia e Jugoslavia era al suo apice e così il cinema sovietico era l’unico “proibito” Dopo il 1965 le relazioni si allentarono e per me fu straordinario scoprire cineasti per me fondamentali come Aleksander Medvedkin e il suo Happiness, un film che è chiaramente alla base dei miei primi lavori per il cinema, come del resto lo è stato, e lo è tuttora, il cinema di Adolfas Mekas.

L’approccio documentaristico invece, sia sulla forma che sul contento, sembra essere una costante fin dai suoi esordi…

La povertà dell’industria cinematografica del mio paese mi ha quasi obbligato a questo tipo di soluzione. Non abbiamo mai avuto un “mercato” adeguato per realizzare film con attori o maestranze professioniste. Non a caso Dusan Makavejev ha girato qualche film con capitali stranieri, australiani addirittura. Quest’obbligo però ha sempre arricchito, anche drammaticamente, le mie opere proprio per la commistione del linguaggio della finzione con riprese, per citare Duchamp, ready-made.

Negli anni successivi, dopo la vittoria dell’Orso d’oro al Festival di Berlino con Rani Radovi, la sua produzione cinematografica si è spostata per anni in Germania per poi tornare nella sua Jugoslavia e sperimentare nuove forme di cinema all’interno di svariati contesti, compreso quello televisivo. Attualmente a cosa sta lavorando?

Ho appena finito il montaggio, proprio due settimane fa, del mio nuovo film. L’Europa sta vivendo il dramma degli immigrati e ho voluto concentrarmi su alcuni di loro, quelli che possiedono i documenti per restare in maniera permanente. Alcuni sono già regolari cittadini europei e quello che volevo catturare con la mia macchina da presa è come stanno vivendo questo cambio di vita, come si relazionano con la cultura europea, che cosa provano. Un anno fa ero in Austria e ho passato alcune settimane per fare ricerche e sopralluoghi.

E’ un film di finzione, non un documentario e così ho trovato 40 attori, tutti immigrati dall’Afghanistan, dall’Iran, siriani e africani. Si intitolerà The Most Beautiful Country in the World e mi auguro di aver fatto un buon lavoro, potente e provocatorio.