È fuggita dal Bahrain, assieme ai due figli, prima dell’arresto, grazie alla doppia cittadinanza e al passaporto danese. Ora è a Copenhagen, in esilio. Zaynab al Khawaja, la giovane attivista scarcerata qualche giorno fa per «motivi umanitari», ha ricevuto una soffiata sul prossimo arrivo della polizia. Ad attenderla perciò c’era una sicura condanna a una lunga pena detentiva per le sue attività e per oltraggio alla monarchia sunnita al Khalifa che regna sul piccolo arcipelago base della V Flotta Usa. Un futuro duro per una madre di due bimbi piccoli. Ha perciò scelto di lasciare subito il Bahrain, su pressione del padre Abdulhadi al Khawaja, uno degli attivisti dei diritti umani più stimati del Golfo condannato all’ergastolo con l’accusa di aver complottato per rovesciare la monarchia. Con la partenza, obbligata, di Zaynab al Khawaja, tutti i principali esponenti della protesta popolare del 2011 in Piazza della Perla a Manama, sono stati arrestati e condannati al carcere. Chi ha potuto farlo è scappato dal Bahrain.

Zaynab ha affidato a Twitter gli ultimi suoi messaggi. «Il regime crede che l’esilio ci terrà distanti dalla nostra terra ma noi portiamo il Bahrain nei nostri cuori, ovunque andiamo», afferma in un tweet. «I miei antenati hanno vissuto e sono morti in questa terra molto prima che gli al Khalifa arrivassero qui a portarci via la libertà», dice in un altro l’attivista raccontando in poche battute la storia del Bahrain. Clan di predoni nei deserti orientali dell’Arabia Saudita, gli al Khalifa furono costretti a lasciare il Qatar e nel 1799 si trasferirono in Bahrain. La loro presenza nell’arcipelago del Golfo era destinata ad essere di breve durata ma nel 1820 furono riconosciuti “governanti” dal colonialismo britannico che impose alle popolazioni locali una “dinastia” di ex ladri di carovane.

Per gli Khalifa è stato piuttosto facile schiacciare il movimento popolare che tra l’inverno e la primavera del 2011 riuscì a far scendere nelle strade di Manama centinaia di migliaia di bahraniti a sostegno di riforme politiche, di una piena uguaglianza tra la minoranza sunnita al potere e la maggioranza sciita discriminata e di una nuova idea di ciitadinanza. Forte del silenzio degli alleati occidentali e dell’intervento militare saudita, re Hamad bin Isa ha presentato la protesta popolare come un complotto dell’Iran e del movimento sciita libanese Hezbollah. Gli Stati Uniti, fatta eccezione per qualche timida critica, non sono mai intervenuti sulla monarchia bahranita per impedire arresti di massa, condanne sommarie, abusi e torture. Re Hamad ha sbattuto in carcere tutta l’opposizione e costretto all’esilio chi, come Zaynab al Khawaja, restava ancora in libertà. Eppure la casa regnante bahranita continua ad essere trattata con tutti gli onori dai reali inglesi e dalle democrazie europee.

A favore degli al Khalifa gocano anche i forti interessi che ruotano intorno allo sport. Il circo della F1 continua regolarmente a disputare il GP di Sakhir incurante di proteste e condanne. Il mondo del calcio fa altrettanto ai vertici della Fifa e ora la monarchia bahranita potrebbe ricevere un nuovo riconoscimento anche dal ciclismo. Il figlio del re, il principe Nasser Bin Hamad al Khalifa, accusato di torture e di violazione dei diritti umani, ha messo in piedi con oltre 16 milioni di dollari un team, il Cycling Team Bahrain, con l’intenzione di farlo partecipare alla corsa più prestigiosa del mondo, il Tour de France. I siti arabi scrivono che l’uomo di punta del team del principe Nasser potrebbe essere addirittura il vincitore del Giro d’Italia, Vincenzo Nibali.