È prezioso l’ultimo volume di Zapruder, rivista di storia della conflittualità sociale, sulla scuola negli anni ’80 (Pierino torna a scuola, Mimesis, pp. 212, euro 16) perché disfa l’immagine da «Milano da bere» affibbiata a quel decennio e ribalta quell’altra del «riflusso» rispetto agli «eccessi» degli anni ’70, sempre ridotti alla caricatura degli «anni di piombo». I testi contenuti nel volume possono essere letti in contrappunto rispetto all’attuale saggismo contro il presunto «egualitarismo» della scuola (Ricolfi, Mastrocola, Galli della Loggia). La scuola non è in crisi permanente, né è l’antro oscuro dell’immobilismo sociale. È il terreno di lotte e resistenze iniziate negli anni ’70, e definite nel decennio successivo in condizioni storiche diverse, contro il progetto di trasformazione neoliberale sostenuto dalle destre e dalle sinistre fino alla cosiddetta «Buona scuola» di Renzi e del Pd, e oltre.

UNO DEI MODI PER RACCONTARE l’altra scuola sono i movimenti studenteschi. Prendiamo quello del 1985. Quel movimento fu rappresentato in maniera rassicurante come «apolitico», i ministri questurini e i loro responsabili di piazza tenevano a separare le loro rivendicazioni «sindacali» o «pragmatiche» da quelle «rivoluzionarie». «Cambiare la vita», l’inno di Rimbaud, non sembrava essere più necessario. Ci avrebbe pensato il mercato a cambiarla.

La separazione tra una sfera ideale e una materiale è ricorrente nella polizia epistemologica che governa il discorso politico: da un lato, c’è l’estremismo del «Sessantotto-Settantasette» che ha dato un’interpretazione «delirante» o «anarco-pulsionale» di una libertà arbitraria e senza fondamenti; dall’altro lato, c’è il realismo capitalista di una libertà vincolata al calcolo dei costi e dei benefici fatto dai teorici dell’investimento nel capitale umano che gestiscono la vita con il decisionismo dei manager. In questo schema il movimento dell’85 è stato collocato dalla parte del realismo capitalista: chiedeva un’edilizia scolastica decente, aule con meno di 25 alunni (dovrebbero essere non più di 15), programmi aggiornati, mica la «rivoluzione».

QUESTA È UNA MENZOGNA. Tutti i movimenti studenteschi nella scuola e nell’università di massa si sono aggregati a partire dai bisogni degli studenti. Hanno legato aspetti materiali e ideali in una prassi trasformativa irriducibile all’idea di istruzione come servizio per cittadini consumatori o clienti. Alla base c’è l’idea che la scuola è un bene comune, è irriducibile all’istituzione disciplinare (la caserma, la famiglia o la fabbrica), non è un’agenzia interinale che forma manodopera o dirigenti d’azienda, fa parte di una democrazia costituente.

In questa prospettiva il movimento del 1985 è stato la prima accumulazione di forze che hanno dato vita al movimento universitario della Pantera, all’ondata dei centri sociali tra la fine degli anni Ottanta e la prima metà degli anni Novanta, al movimento di Genova 2001. Quindici anni, e più, di politica sono apparsi anche in quel primo lampo di massa nel 1985, dentro le maglie di una società frammentata, ostaggio del berlusconismo culturale già allora bersaglio critico, come lo fu cinque anni dopo con la Pantera.

UN ALTRO ELEMENTO UTILE per comporre un’immagine controcorrente degli anni Ottanta è il racconto della formazione dei Cobas scuola, avvenuta tra il 1987 e il 1988 a partire da un conflitto a sinistra e nel nuovo femminismo, un anno dopo il movimento degli studenti e in corrispondenza con il rinnovo del contratto nazionale firmato dai sindacati confederali, e contestato anche dalla base dell’allora Cgil scuola. Giochi prospettici della storia. Il movimento contestava al sindacato non solo l’avere accettato un modesto aumento degli stipendi tradizionalmente bassi ma anche l’idea di uno «straordinario» erogato in base al «merito» e alla «produttività». Cioè la logica performativa nella carriera e nello stipendio usata per differenziare e mettere in concorrenza i lavoratori. A distanza di 34 anni, nel 2022, la critica di questo aspetto del neoliberalismo scolastico è stata acquisita anche dai sindacati maggiori che oggi si oppongono al «decreto 36» del governo Draghi.

Parliamo di percorsi discontinui che agiscono in territorio nemico e sono vulnerabili ai ritorni corporativi, a reazioni individualistiche, alle retoriche del declino. Nelle condizioni imposte dalla rivoluzione passiva fare storia è necessario per riconnettere le resistenze intermittenti alle più avanzate alle più attuali elaborazioni critiche. L’istruzione è uno dei campi dove è possibile farlo di più e meglio. Insieme al mercato del lavoro, e ai diritti sociali e civili, è qui che la controrivoluzione continua a sferrare colpi terribili. Il presente però non è una gabbia d’acciaio, ma un pieno di potenze messe all’opera per negare la possibilità di un divenire altrimenti. A chi vive spetterebbe il compito di usarle diversamente.