A cent’anni dalla nascita di Andrea Zanzotto gli stati maggiori della critica zanzottiana sono in gran fermento. Il convegno Zanzotto 100 lo ha appena festeggiato a casa sua – a Pieve di Soligo – a inizio ottobre, in occasione del suo compleanno, mentre un vero e proprio tour de force di iniziative si prepara, per il mese di novembre, fra Oxford, Parigi e Berlino. E un periodico come «il verri» – la rivista di quella Avanguardia da cui Zanzotto ha più volte preso esplicitamente le distanze – gli dedica un articolato numero monografico («E l’avanguardia ha trovato, ha trovato? – Andrea Zanzotto», n. 77, ottobre 2021, € 15,00). È un passaggio, questo centenario, che permette soprattutto di verificare come gli ultimi dieci anni – quelli che ci separano dalla sua morte – siano stati anni piuttosto intensi per i suoi lettori e per quanti si siano avventurati nell’arduo esercizio di commento della sua opera poetica. Proprio nel 2011 usciva un Oscar Mondadori che rendeva nuovamente disponibili tutte le poesie di Zanzotto (a cura di Stefano Dal Bianco, che nel 1999 ne aveva già preparato il «Meridiano» insieme a Gian Mario Villalta). E nel ’19 l’uscita in Italia degli Haiku for a season, già precedentemente pubblicati in America, rendeva più complessa la definizione del corpus zanzottiano. Il quadro si arricchisce ulteriormente, ora, grazie agli Erratici Disperse e altre poesie 1937-2001 (Mondadori «Lo Specchio», pp. 344, € 20,00) (e a questo andrà aggiunto anche il suo quaderno di traduzioni, recensito in questa stessa pagina di «Alias»). Il volume – con un titolo di ambito geologico che richiama molto da vicino quello dell’ultimo libro di versi pubblicato in vita da Zanzotto, Conglomerati (2009) – è impeccabilmente allestito da Francesco Carbognin e raccoglie una ragguardevole mole di materiale molto eterogeneo: un centinaio di liriche pubblicate fra il 1937 e il 2011, «circolate nelle più disparate sedi editoriali (riviste e quotidiani, volumi collettanei, opuscoli, libri e cataloghi d’arte …)», fino ad assorbire addirittura testi vergati su «piastrelle e piatti di maiolica impressi a serigrafia» (così da rinforzare una volta di più, peraltro, l’idea della lirica zanzottiana come di un prodotto fortemente materico, concreto). Schegge di poesia che non avevano intanto trovato posto nelle varie raccolte di Zanzotto, né nel già citato e complessivo «Oscar» del 2011.
Difficile, scavando in questa miniera, non cedere alla tentazione di cercare soprattutto affinità e tangenze con lo Zanzotto ‘maggiore’, insomma con i percorsi più noti della sua lirica. Basterà intanto annotare almeno qualche primo affioramento notevole. Vedi, per cominciare, l’ampia zona occupata da alcune prove autoriali che risultano preziose anzitutto per la loro datazione piuttosto alta – ovvero la fine degli anni trenta – nonché per un carattere che è spesso dei ‘luoghi primi’, degli inizi di un (grande) poeta: la loro evidenza, cioè la loro disponibilità ad autodenunciare, fra il resto, le letture fondative del loro autore. Ecco allora, ben in rilievo, la presenza di Pascoli, che agisce a diversi livelli, dall’imagery funebre che avvolge l’elemento naturale (come per le «urne / dei fiori» di un Notturno del 1938) fino all’assetto metrico e a riecheggiamenti di varia qualità (spicca un titolo come Ultimo sogno, che dall’aura materna di Myricae finisce, significativamente, a fare da insegna a una poesia che inscena un incontro amoroso, in quello stesso ’38).
Le zone più mature o tarde della scrittura zanzottiana non sono comunque meno seducenti, e ci forniscono spesso delle conferme ulteriori di nuclei tematici già ossessivamente presenti altrove. Oppure ci consegnano, talvolta, degli anticipi interessanti: possono fare insomma da cartone preparatorio di qualcosa che arriverà più tardi a compimento. Quanto al primo punto, basterà verificare che un emblema zanzottiano come la luna – omaggiato per esempio nelle IX Ecloghe (1962) – nel ’63 diventa protagonista di un altro complimento madrigalesco, una lirica intitolata Alla luna euganea: dal treno («O luna euganea / rendimi intelligibile la tenebra»), che fa da tappa di avvicinamento prima del poemetto sulla luna violentata, Gli sguardi i fatti e senhal, dedicato all’allunaggio nell’estate del ’69. E in fondo la luna ci porta anzitutto nei paraggi di Leopardi, irrinunciabile phare zanzottiano le cui «tracce» riemergono anche qui (in una lirica che già chiudeva gli inediti del «Meridiano» del ’99, Su tracce notturne leopardiche).
Quanto invece alla seconda possibilità – testi che lascino presagire il futuro Zanzotto – saranno sufficienti un titolo come (Verso i Palù), datato 1986, che trasmigrerà pari pari alla sezione iniziale della raccolta del 2001, Sovrimpressioni (non così per i pochi versi che compongono il testo, che assomiglia davvero a una specie di sinopia rifutata e rimodulata: «Ombre e orli d’autunno, pregi / bene offerti, gentilità di sortilegi / ben lievi, privilegi…»). E discorso almeno in parte analogo si potrebbe fare per un fiore zanzottiano come il papavero, che compare in un testo del ’90 e in Altri luoghi di haiku – dell’anno seguente – in attesa di trovare una sistemazione più stabile nel giardino infestato di vitalbe dello splendido Meteo, ormai nel ’98.

Così, dentro il continuo testa-coda fra gli esordi e gli approdi ultimi di questa poesia, non si potrà non dire che davvero sono efficaci, ad accompagnare chi affronti questi Erratici, gli asciutti ma insieme dettagliati apparati, che permettono di districare i fili intricatissimi e lenticolari delle disperse zanzottiane. E altrettanto preziosa è l’appendice, che ospita fra l’altro alcuni appunti che fungono da autocommento, come per una lirica intitolata Trasfigurati palazzi (un assaggio: «Nude spire di strade s’attorcigliano / ai colli acuti, gli ossuti parapetti / attendono il tumulto dei torrenti»). Un esempio, scrive Zanzotto, di «ultra-naturalismo», nel quale una «fitta trama lessicale e sonora» tende a «celare, pur sempre evocandoli, i colori e i suoni violenti della guerra, quasi per attutirne gli effetti catastrofici sul paesaggio dell’uomo». Come dire che in Zanzotto – poeta per eccellenza del paesaggio e dell’enigma che vi si cela – anche la più astratta accensione metaforica, anche il più spericolato esperimento linguistico portano con sé, pur attutiti e stravolti, i segni ineludibili della Storia.
Si consuma, in questo rapporto non sempre esplicito fra la realtà esterna e il privatissimo scrigno della poesia, una partita davvero essenziale. Perché la parabola dell’esperienza di Zanzotto – che va verso l’indecifrabile, soprattutto a partire dalla Beltà (1968) – è anche il segno di un possibile scollamento fra poesia e mondo, o fra gioco del Significante da una parte e, dall’altra, necessità di continuare a leggere, dentro quella poesia, la tenuta di un Significato. Sulla lirica di Zanzotto come grande nostalgia del Significato punta del resto, adesso, anche il lavoro di uno dei più affezionati lettori del solighese, Andrea Cortellessa: Andrea Zanzotto Il canto nella terra (Laterza «BUL», pp. IX-425, € 24,00) (e anzi una «ridefinizione del rapporto … fra significanti e significati» sembra proprio il perno attorno al quale si muove la sua indagine). Tornando a leggere Zanzotto a partire da questa prospettiva si potrebbe ripetere, per lui, quel che diceva un suo coetaneo altrettanto diamantino, Paul Celan: «dice il vero chi parla oscuro». Si dovrebbe cioè tenere conto che davvero, per Zanzotto, anche il verso più indecifrabile custodisce il dolore dell’esperienza. Si tratta, allora, di credere alla «buona fede» originaria rivendicata dallo stesso Zanzotto anche per la lirica più incomprensibile. E di dare credito all’autenticità di una parola che tenta comunque, fra mille «interferenze», di dire e interpretare la realtà, sia essa l’orrore della guerra, il ricordo di un paese e delle sue esistenze minime o qualche faglia profonda dell’io, il suo «oscuro matrimonio / con il cielo e le selve».