Le Repubbliche passano, la tendenza farsesca della politica italiana resta immutabile. Il caso Zanetti ne è la certa riprova. Sta per scatenarsi una disputa legale di prima grandezza intorno alla proprietà del simbolo di un partito, la Scelta civica tenuta a battesimo con scarso successo da Mario Monti, che non esiste più. Però non basta: la proprietà di quel simbolo rinvia a un altro paradosso. Se resta a Zanetti nessuno potrà accusare Renzi di avere nella sua squadra di governo un esponente dell’Ala verdiniana, in caso contrario invece apriti cielo. Anche se Zanetti è sempre Zanetti, ed è sempre ufficialmente alleato di Verdini, il quale a propria volta della maggioranza fa parte comunque, con o senza ministro. È la politica italiana, appunto.

La diatriba interna ai resti di Scelta civica è di quelle che manderebbero in sollucchero qualsiasi azzeccagarbugli. Dopo settimane di tensione e al termine di un riunione della direzione protrattasi per ore, mercoledì scorso, il vertice di Sc aveva dato a Zanetti mandato di decidere sull’unificazione con le altre aree centriste, in concreto con la truppa di Verdini, per dar vita al gruppo parlamentare “Scelta civica verso Cittadini per l’Italia”, una di quelle sigle agili che ti entrano in testa al primo colpo. Lo stesso gruppo si sarebbe dovuto costituire subito dopo anche al Senato, dove Sc è al momento inesistente, e soprattutto i due soggettini avrebbero formato poi rapidamente i comitati centristi per il Sì al referendum.

Nella decisione della direzione non era lasciato alcuno spazio di autonomia al gruppo dei deputati, che invece se l’è preso e, sia pur in modo un po’ rocambolesco, ha messo in minoranza non solo Zanetti ma l’intera direzione, rovesciandone la scelta. Di qui l’insistenza del viceministro nel sostenere che ad abbandonare la zattera di Sc non è stato lui ma gli onorevoli ammutinatisi. Questione di lana meno caprina di quanto appaia: dalla proprietà del simbolo dipendono i rimborsi, ma dipende anche la possibilità di denunciare l’ingresso di Verdini nella squadra di governo. Una faccenda sulla quale la minoranza del Pd ha già rumoreggiato, come d’abitudine, ma sulla quale, come ha spiegato ieri il presidente Orfini, l’ultima parola spetta solo ed esclusivamente a Renzi.

Su venti deputati, per ora tre hanno seguito Zanetti. Un’altra, Ilaria Capua, è comunque in procinto di tornare alla ricerca dall’altra parte dell’Atlantico. I 15 rimasti sono oggetto delle pressioni e delle lusinghe dell’esperto in materia Denis. I bookmaker prevedono che nei prossimi giorni qualcun altro scivolerà verso i “Cittadini ecc.”, qualcun altro passerà immediatamente al Misto.

Tra un consulto con gli avvocati e l’altro, la nuova coppia Verdini-Zanetti procederà comunque subito a formare i comitati centristi per il Sì, che il viceministro dell’Economia vorrebbe guidati guidati dall’ex presidente del Senato Marcello Pera: «Non voglio tirarlo per la giacchetta ma sarebbe la figura ideale». Solo poi, a referendum concluso, la nuova coppia affronterà la vera battaglia dura: quella per mettere insieme un cartello tale da poter sfidare le elezioni senza affondare una volta per tutte. Sembra impossibile, è vero, ma se si può slittare da Monti a Verdini vuol dire che nella politica italiana niente è mai impossibile