Edoardo Zanchini, vicepresidente di Legambiente, ieri in un’intervista televisiva il ministro della transizione ecologica Roberto Cingolani ha detto di avere «parlato con Legambiente, Greenpeace, c’è un accordo sul recovery piuttosto buono sui contenuti principali, ovviamente tutto è migliorabile». Di quale accordo sta parlando e quali sono i contenuti?
Credo si riferisca all’obiettivo di ridurre le emissioni di anidride carbonica del 70% entro il 2030 che anche noi condividiamo. Ma noi non abbiamo fatto alcun accordo con il ministero. Anche perché di fatto il «Recovery» è stato approvato senza un significativo confronto con la società e il parlamento. La proposta italiana sul clima è inadeguata. Sulle rinnovabili si dovrebbero installare sei gigawatt l’anno per realizzare gli obiettivi europei entro il 2030. Con il «Recovery» si installeranno circa 4 gigawatt. Non sono sufficienti. Non si fanno scelte per accelerare sul fotovoltaico in un paese che ha circa 170 mila ettari da bonificare. Non ci sono scelte che permetterebbero di sviluppare l’eolico offshore galleggiante che potrebbe allontanare gli impianti di molte miglia dalle coste. Il «piano di ripresa e resilienza» non dice nulla su questi impianti.

Quali sono a suo avviso gli altri punti critici del «piano nazionale di ripresa e resilienza»?
Le infrastrutture. Si investe molto poco sulle città e sulla mobilità sostenibile. A differenza di quanto accade con l’alta velocità dove si investono 25 miliardi di euro. E poi c’è il capitolo dell’efficienza energetica. Nel piano del governo ci sono obiettivi vaghi, anche se sono previste risorse enormi, in particolare sull’edilizia privata. Il problema è che non c’è quasi niente sull’edilizia pubblica. Mi sembra che ci siano poche idee sulla transizione che riduce consumi energetici degli edifici, facendo a meno del metano per riscaldarli.

Le trivellazioni sono ripartite. Ci spiega come siamo arrivati a questo punto?
Sono stati presentati diversi progetti per le nuove trivellazioni, il governo avrebbe dovuto individuare i criteri con cui limitare e bloccare le nuove esplorazioni. L’obiettivo è quello che è stato già fatto altrove: fissare la data entro la quale non si estrarrà più gas e petrolio, per noi dovrebbe essere il 2030. Questo è il modo per dare un segnale chiaro. Altrimenti è una ipocrisia. In Italia manca una legge analoga a quelle approvate in Francia e in Danimarca, uno dei maggiori produttori di petrolio in Europa, che stabilisca un chiaro termine ultimo di validità delle concessioni e preveda un fermo delle attività correlate e delle autorizzazioni per nuove attività di ricerca e prospezione degli idrocarburi. In Italia nessun impianto offshore ha avuto il va libera dal ministero e dalle sovrintendenze, eppure si fanno trivellazioni. Una piattaforma nell’Adriatico è considerata parte del paesaggio, mentre l’eolico è brutto. Sono questi i criteri con cui si approvano i progetti?