Evgenij Ivanovic Zamjatin
a Iosif V. Džugašvili (Stalin)
Mosca, Cremlino
giugno 1931

Egregio Iosif Vissarionovic, un condannato alla pena capitale – l’autore di queste righe – si rivolge a Lei, chiedendoLe di revocare questa punizione e di sostituirla con un’altra.
Il mio nome, con tutta probabilità, Le è noto. In quanto scrittore essere privato della possibilità di scrivere equivale per me a una condanna a morte e le circostanze hanno assunto una piega tale per cui mi è impossibile proseguire il mio lavoro. Qualsiasi forma di creazione è infatti inconcepibile in un clima di sistematica vessazione come quello attuale, che va peggiorando di giorno in giorno.
Non intendo assolutamente dipingermi come un povero innocente offeso. So benissimo che alcuni miei scritti risalenti ai tre-quattro anni immediatamente successivi alla Rivoluzione potevano fornire il destro ad attacchi. So di avere l’abitudine, alquanto scomoda, di dire non ciò che converrebbe in un dato frangente, bensì quella che mi sembra la verità. In particolare, non ho mai dissimulato il mio giudizio riguardo al servilismo, all’adulazione e all’abbellimento della realtà da parte dei letterati, poiché ritenevo – e lo ritengo ancora – che tutto ciò offenda in pari grado tanto loro, quanto la rivoluzione. E, a suo tempo, è stata proprio questa mia presa di posizione (formulata in termini netti, al punto da dispiacere evidentemente a molti) a scatenare la campagna di stampa indirizzata contro di me dopo la pubblicazione del mio articolo sul n. 1 del 1920 della rivista «Dom iskusstv» (La casa delle arti).

Da allora gli attacchi sono proseguiti sotto vari pretesti, dando infine origine a quella che tenderei a definire una forma di feticizzazione: come gli antichi cristiani si erano inventati a fini pratici la figura del demonio affinché incarnasse ogni possibile male, così i critici mi hanno trasformato nel diavolo della letteratura sovietica. Sputare sul diavolo è considerata una buona azione e ciascuno l’ha fatto come meglio poteva. Non c’era opera che avessi pubblicato in cui la critica non scorgesse invariabilmente chissà quale intento diabolico. E, pur di smascherarlo, non esitavano ad attribuirmi perfino un certo dono profetico: per esempio, nella mia favola Dio, uscita nel lontano 1916 sulla rivista «Letopis’», un critico si ingegnò a vedere una «presa in giro della rivoluzione a seguito del passaggio alla NEP», mentre nel racconto Il monaco Erazm, datato 1920, un altro critico, Mashbic-Verov, ravvisò «una parabola sulle autorità ravvedutesi con la NEP».

Indipendentemente dal contenuto, la mia firma bastava per definire criminali questa o quell’altra mia opera. Di recente, nel marzo di quest’anno un provvedimento dell’Oblit di Leningrado ha fatto sì che non mi restassero più dubbi in proposito. Per la casa editrice Akadenija avevo infatti curato la commedia di Sheridan La scuola della maldicenza, scrivendo un saggio sulla biografia e sulle opere dell’autore; beninteso, di maldicenze da parte mia lo scritto non ne conteneva affatto, né avrebbe potuto contenerne, eppure l’Orblit non solo ne ha proibito la pubblicazione, ma ha anche vietato all’editore di menzionare il mio nome come redattore. E solo dopo essermi rivolto a Mosca, solo dopo che il Glavlit, evidentemente, ebbe fatto presente che, a ogni modo, non si poteva agire in modo così manifestamente ingenuo, soltanto allora giunse il permesso di stampare il mio saggio e, finanche, il mio nome delittuoso.

Riporto questi fatti solo perché riflettono l’atteggiamento nei miei confronti in modo assolutamente limpido, privo, per così dire, di impurità chimiche. Dall’ampia collezione di esempi di cui ormai dispongo ne riferisco unicamente un altro, riguardante non un articolo qualunque, bensì un testo teatrale di una certa ampiezza costatomi tre anni di lavoro. Ero sicuro che questa mia pièce – la tragedia Attila – avrebbe finalmente messo a tacere chi vuole trasformarmi a tutti i costi in un reazionario. Questa mia certezza era fondata su solide basi. Il testo era stato letto alla riunione della Direzione artistica del Grande Teatro Drammatico, alla presenza di diciotto delegati delle fabbriche di Leningrado e accettato per la messinscena con tanto di benestare del Glavrepertkom, dopodiché… Lo spettatore operaio che tanto si era profuso in lodi ha forse potuto assistere alla rappresentazione? No, perché l’Oblit di Leningrado l’ha vietata quando la pièce era ormai annunciata sui cartelloni e gli attori l’avevano già provata a metà.

La morte della mia tragedia Attila si risolse per me in una autentica tragedia: compresi con assoluta chiarezza che qualsiasi tentativo di influire sulla mia posizione si sarebbe rivelato vano, tanto più che di lì a breve scoppiò il celebre scandalo intorno a Albero rosso di Pil’njak e al mio romanzo Noi. Si capisce: pur di annientare il diavolo, è ammissibile barare e quindi un testo scritto nove anni prima, nel 1920, è stato presentato insieme ad Albero rosso come la mia ultima opera. E da qui è partita una campagna diffamatoria di proporzioni inaudite che ha attirato perfino l’attenzione della stampa estera: si è fatto di tutto per precludermi ogni possibilità di andare avanti col mio lavoro. I compagni di ieri, le case editrici, i teatri hanno cominciato a temermi. I miei libri sono stati ritirati dalla circolazione nelle biblioteche. La mia pièce La pulce, messa in scena per due stagioni di fila dal MChAT (Teatro delle Arti di Mosca) con invariato successo è sparita dal repertorio. La casa editrice Federacija ha sospeso la pubblicazione delle mie opere complete. Tutti gli editori che hanno cercato di far uscire lo stesso i miei libri sono stati immediatamente attaccati, e mi riferisco a Federacija e a Zemlja i fabrika, ma soprattutto a Izdatel’stvo Pisatelej v Leningrade. Quest’ultima casa editrice si è arrischiata ancora per un anno a ospitarmi nel suo direttivo e a valersi della mia esperienza, commissionandomi la revisione stilistica di testi di giovani autori, anche comunisti.

Nella primavera di quest’anno la sezione leningradese della RAPP (Associazione Russa Scrittori Proletari) è riuscita a ottenere la mia espulsione dal direttivo e, di conseguenza, la fine di questa collaborazione.
La «Literaturnaja gazeta» (Giornale letterario) ne ha dato trionfalmente notizia, aggiungendo in termini del tutto inequivocabili: «La casa editrice va conservata, ma non per i tipi come Zamjatin». E così Zamjatin si vide chiudere in faccia l’unica porta ancora aperta: la sua sorte di letterato era ormai segnata.

Nel codice penale sovietico, subito dopo la condanna a morte, viene la deportazione del colpevole oltre i confini del paese. Pur ammettendo che io sia colpevole e che meriti una punizione, credo tuttavia che il castigo adeguato debba essere più lieve della morte letteraria; perciò chiedo che tale condanna sia revocata e sostituita con l’espulsione dall’Urss.
Traduzione di Valentina Parisi

di VALENTINA PARISI
«Se mi chiedessero chi meglio di tutti conosce la lingua russa, risponderei senza esitazioni: Stalin. È da lui che occorre andare a lezione di chiarezza, laconicità e cristallino nitore di stile». Così nel 1935 Michail Kalinin, segretario del Comitato Esecutivo Centrale, in uno sfoggio di flagrante piaggeria, lusingava la già innata tendenza del suo diretto superiore a immischiarsi nelle questioni letterarie. Non solo garante della purezza ideologica, non solo custode dell’ortodossia, Stalin aveva anche tutte le carte in regola per diventare il redattore capo della nuova letteratura sovietica.

Che Iosif Vissarionovic nutrisse ambizioni in tal senso è indubbio: dotato di una discreta esperienza accumulata da giovane nelle redazioni clandestine della «Pravda» e di altri due fogli bolscevichi a Baku, non solo lasciò la sua impronta sul lessico politico sovietico (come ha dimostrato lo storico Aleksej Jurak), ma non esitava neppure a brandire la matita rossa ogni qualvolta lo riteneva necessario, intervenendo anche su contenuti apparentemente lontani dalle sue competenze.

Il genetista Lysenko, ad esempio, prese parte a un congresso scientifico con una relazione che Stalin aveva meticolosamente istoriato di suo pugno, corredandola con un profluvio di correzioni stilistiche e osservazioni nel merito. Nemmeno il testo dell’inno dell’Urss, composto nel 1943, sfuggì alla sua attenzione. All’autore, il poeta Sergej Michalkov, suggerì di aggiungere almeno una strofa sull’Armata Rossa, stante la guerra allora in corso contro la Germania nazista.

L’insistenza con cui Stalin cercò a partire dagli anni Trenta di vestire i panni del redattore maximo non è che una dimostrazione della pervasività del controllo statale esercitato in Urss sull’attività degli scrittori e, in generale, degli artisti. La soppressione sistematica di ogni forma di libera espressione creativa non era veicolata esclusivamente dall’operato dei famigerati censori del Glavlit, ma – come sottolinea lo studioso Arlen Bljum – richiedeva una «cooperazione» a più livelli. Non secondario fu l’apporto fornito dalla disponibilità degli autori stessi ad autocensurarsi (il cosiddetto censore o redattore «interno»), nonché dall’operato professionale degli editor medesimi che vegliavano sull’accettabilità formale e ideologica dei manoscritti, badando a trasmettere alla censura preventiva soltanto quelli che, auspicabilmente, non sarebbero stati rigettati.

Non a caso, Nadežda Mandel’štam riteneva la figura dell’editor molto più temibile per l’autore rispetto a quella del censore: era al redattore che spettava il compito ingrato di «castrare il testo», resecando non solo qualsiasi evidente manifestazione di originalità o di indipendenza di pensiero, ma anche intervenendo con zelo degno di miglior causa a rimuovere tutti quegli elementi potenzialmente sospetti di cui lo scrittore non era consapevole (riecheggiamenti involontari di opere proibite, allusioni sgradite alla suscettibilità dei potenti e così via).
Per quanto interessanti, le osservazioni consegnate dalla vedova di Mandel’štam al suo diario si riferiscono a una fase «matura» della censura sovietica, in cui gli autori non osavano più insorgere pubblicamente contro i vincoli imposti alla propria libertà creativa e si limitavano tutt’ al più a protestare contro tagli e vessazioni nel corso di conversazioni private con «amici» che poi si rivelavano fatalmente informatori della polizia politica.

Proprio per questo la lettera inviata da Evgenij Zamjatin nel giugno 1931 a colui che Osip Mandel’štam da lì a a un paio d’anni definirà sprezzantemente in una sua poesia «il montanaro del Cremlino» rappresenta un documento unico: è, infatti, l’ultimo caso in cui un letterato si appella direttamente a Stalin per denunciare l’intollerabile ostracismo di cui è oggetto. Iosif Vissarionovic vi compare nelle vesti di destinatario, ma non certo di interlocutore letterario; Zamjatin non contempla nemmeno l’ipotesi di considerarlo suo autoproclamato redattore, piuttosto gli chiede implicitamente di assumersi il peso dell’eredità politica di Lenin che il 10 novembre 1917, cioè soltanto tre giorni dopo la presa del potere, con il Decreto sulla stampa aveva ordinato la chiusura di tutti gli organi di stampa «controrivoluzionari», ponendo dunque le basi per la soppressione della libertà di parola e di opinione.

Agli occhi dello scrittore nato nel governatorato di Tambov nel 1884, bolscevico della prima ora e testimone dell’ammutinamento della corazzata Potëmkin nel 1905, esisteva una precisa continuità tra i provvedimenti censori apparentemente «d’emergenza» assunti da Lenin all’indomani dell’Ottobre e quell’asservimento della letteratura alle direttive del potere politico che raggiungerà il suo culmine in epoca staliniana. Una deriva che Zamjatin aveva intuito e deprecato già in Io temo, l’articolo pubblicato nel 1920 su «Dom iskusstv» che, non a caso, sarà all’origine di tutte le sue sfortune: «La vera letteratura può esistere solo dove a occuparsene non sono funzionari benintenzionati, esecutori di ordini altrui, bensì pazzi, reprobi, eretici, sognatori, ribelli e scettici» affermava, per concludere profeticamente così: «Io temo che non avremo mai una letteratura vera finché non guariremo da questa specie di nuovo cattolicesimo che, non meno di quello vecchio, ha paura della parola eretica. E se una simile malattia dovesse dimostrarsi inguaribile, temo che la letteratura russa potrà avere un solo futuro: il suo passato».

Dieci anni dopo i timori di Zamjatin si riveleranno puntualmente fondati, con l’affossamento di qualsiasi discorso avanguardistico e la trasformazione di lì a breve degli scrittori in «ingegneri delle anime». Per cui il ragionamento alla base della sua richiesta è logicamente impeccabile: se il potere sovietico aveva decretato la morte civile del letterato Zamjatin, che Stalin sancisse definitivamente la sua inesistenza, consentendogli di «sparire» all’estero. In fondo, che cosa se ne faceva di uno scrittore incorreggibile, dalla cui penna era uscita una distopia ambientata in un immaginario Stato Unico, che ricordava fin troppo l’Urss? Nessun editing avrebbe mai potuto emendare le sue opere.
D’altronde, l’autore di Noi era da sempre un candidato eccellente all’emigrazione: nell’agosto 1922 Lenin lo aveva già «imbarcato» sulla cosiddetta nave dei filosofi, insieme ad altri intellettuali scomodi (Sergej Bulgakov, Nikolaj Berdjaev, Sergej Trubeckoj, Michail Osorgin), destinati a essere espulsi dalla Russia bolscevica. Solo l’intervento di conoscenti altolocati aveva fatto sì che il suo nome all’ultimo fosse espunto dall’elenco.

Nel 1931 gli sforzi di questi stessi amici (Gor’kij in primis) andranno nella direzione diametralmente opposta e Zamjatin, ricevuto il permesso di lasciare l’Urss, raggiungerà infine Parigi via Riga e Berlino. Non si sa se Stalin avesse apprezzato il suo coraggio e il senso di dignità che trapelava da ogni riga della sua lettera, oppure se avesse semplicemente deciso di togliersi di torno un avversario intrepido. Di certo lo scrittore morirà prematuramente nella capitale francese nel 1937 – l’anno terribile delle purghe – senza aver mai rinunciato alla cittadinanza sovietica, né smesso di sperare (lo ricorda Nina Berberova in Il corsivo è mio) in un impossibile ritorno, dimostrandosi ancora pronto a dare battaglia.