Qualche anno fa l’ancora giovane scrittore cileno Alejandro Zambra se ne andò dal suo paese per iniziare una nuova vita nelle intemperie della grande metropoli latinoamericana, Città del Messico, luogo dell’anima del suo maestro Roberto Bolaño. In Cile, Zambra si era conquistato uno spazio protetto in quanto promessa delle lettere nazionali e poi come columnist culturale. Scriveva poesie e romanzi brevissimi – schermaglie, avrebbe detto il suo maestro – che facevano però parlare di un autore emergente nella letteratura in lingua castigliana, in questo aiutato dalla spinta della casa editrice barcellonese Anagrama, indispensabile sigillo del successo internazionale. Presa la dovuta distanza dall’ambiente piuttosto ristretto che l’aveva visto crescere come scrittore, con Poeta cileno (traduzione della bravissima Maria Nicola, che ha reso in italiano un testo non facile, pieno di cilenismi spesso al limite della traducibilità, Sellerio 2021, p. 437, € 17,00) Zambra si tuffa infine nella sfida – quella che doveva essere la battaglia a tutto campo e senza esclusione di colpi – del grande romanzo, la controprova del proprio talento letterario.

Percorsi incerti
Ma, tutto sommato, non rompe la continuità tematica e stilistica con l’opera precedente, i percorsi narrativi cui cerca di dare unitarietà rimangono piuttosto incerti, e annacquano la compattezza dei romanzi precedenti. La prima parte, un po’ stiracchiata, propone una storia sentimentale fra due ragazzi di ceti sociali diversi, Carla e Gonzalo, che si dimenano a lungo nel divano del salotto famigliare senza riuscire a consumare un «rapporto completo», con il ragazzo, trasparente alter ego dell’autore, che attraversa quotidianamente l’intera metropoli su un autobus per raggiungere la fidanzata.

A un certo punto, in un prolungamento di questa prima storia, compare a sparigliare le carte un bambino nato da una relazione di Carla durante una separazione durata alcuni anni, bambino che da adolescente diventerà uno dei protagonisti del romanzo attraverso il rapporto di formazione con il padre putativo. Ma tutto sommato i piccoli conflitti domestici, intorno ai quali non mancano personaggi tratti dal folclore nazionale come «lo sciupafemmine», e cioè il nonno di Gonzalo con innumerevoli figli seminati nel quartiere, non riescono a garantire più di tanto alla narrazione un ritmo ambizioso e finiscono per trattenerci entro limiti segnati da una piccola borghesia che non si distingue per una fertile immaginazione, ragione per cui a volte sembra di tornare indietro di mezzo secolo, al «boom» latinoamericano degli anni sessanta, che negli aspetti più provinciali ha ormai fatto il suo tempo.

Incisivo quando mette l’accento sulle sfumature e i divari sociali di un mondo profondamente classista come quello cileno, Zambra non riesce a creare una tensione narrativa che vada molto oltre l’aneddoto più o meno ben costruito. L’impressione è sempre di galleggiare in superficie.

La trama prenderà una forma più audace e originale, richiamandosi paradossalmente a una tradizione molto radicata, nella seconda parte, quando scenderanno in campo i poeti veri o presunti che alimentano il mito cileno del paese dove la poesia fiorisce come una primavera eterna. Questo mondo di aspiranti poeti, che prolifera dovunque nelle pieghe della classe media urbana, insieme alle vicende legate all’educazione sentimentale del figliastro Vicente, aprono un nuovo scenario e una svolta nello sviluppo della storia. La società si sta evolvendo, i rapporti sono più liberi, i giovani scatenano le loro pulsioni sessuali in modo più scoperto, l’atmosfera è meno asfissiante nel pieno degli anni duemila, e quindi cambiano anche i rapporti della nostra coppia, che non reggerà il passo del tempo.

Ciò che invece rimane invariata è l’ossessione del poeta, il poeta cileno alle prese con le icone della grande storia letteraria del paese, i Neruda, i Mistral, i De Rokha, i Huidobro, i Parra, figure enormi e inaccessibili che incombono altezzose sui soldati della piccola storia.

La solita «gringa»
Sarà nel passaggio generazionale che il romanzo raggiunge uno spessore più significativo con l’emergere del figlio Vicente e i suoi amici, e l’avventura sentimentale con Pru, la gringa, l’immancabile turista nordamericana che inizia il ragazzo, anche lui aspirante poeta, alla vita adulta e al superamento dell’ingenuità ormai disincantata del padre. Rendendosi conto dell’aria che tira e spronata dagli amici di Vicente, la gringa abbandona l’idea di scrivere un reportage sui cani randagi di Santiago o il solito articolo su Pablo Neruda e mette in atto, con l’aiuto del ragazzo, del quale è diventata amante malgrado la differenza di età, un progetto che accresce la tensione del romanzo: un’inchiesta sui giovani poeti cileni mediante interviste personali che dà luogo all’esilarante catalogo dell’attività immaginaria di una generazione e della frustrazione profonda che la opprime.
Spesso le pagine di Zambra rimandano ai territori di Bolaño: i ragazzi si pensano come eredi dei detective selvaggi, ma dopo vent’anni gli aspiranti poeti di Santiago in fin dei conti abbastanza addomesticati, non sono in questo libro che pallidi riflessi dei modelli selvaggi, anche se il futuro immediato riserverà delle sorprese, e molti avranno la possibilità di scrivere le loro utopie sui muri di tutte le piazze del paese. Per adesso, nella storia raccontata da Zambra, si devono accontentare di feste, molto alcol e gare di recitazioni che imitano grottescamente i maestri in un’atmosfera di melancolico nichilismo.