Seconda udienza, secondo rinvio. Si è concluso così ieri nel tribunale per la sicurezza di Mansoura, la città natale di Patrick Zaki, il secondo atto del processo contro il giovane studente egiziano dell’università di Bologna.

Il clima è un altro rispetto alla detenzione cautelare che lo ha tenuto prigioniero dal 7 febbraio 2020 alla scorsa estate: stavolta è un imputato e lo si capisce subito al suo ingresso in aula. Ammanettato, vestito con la tuta bianca dei detenuti egiziani, subito condotto nella gabbia insieme ad altri prigionieri.

In aula erano presenti amici, giornalisti e rappresentanti diplomatici di Italia e Canada, ma il giudice ha imposto il divieto di fare foto e video. L’udienza è durata pochissimo, appena due minuti: i legali di Patrick hanno chiesto copia degli atti per poter preparare la difesa (ancora non avevano in mano quanto prodotto dalla procura se non la possibilità di visionare i documenti negli uffici giudiziari) e dunque un rinvio della seduta.

«Finora ci hanno presentato gli atti senza fornircene una copia o fotocopia ufficiale – ha spiegato all’Ansa l’avvocata Hoda Nasrallah, aggiungendo che questa era la volontà dello stesso Patrick – Abbiamo alcuni punti in mente ma per fare memorie è necessario avere i documenti in mano in modo da poterli utilizzare in ogni punto».

Poco dopo il giudice ha accordato le richieste: gli avvocati potranno accedere agli atti e udienza rinviata. Ma con tempi ben più lunghi del necessario: si salta al 7 dicembre, gli amici glielo hanno gridato mentre saliva sul furgone che lo avrebbe ricondotto in cella a Mansoura.

«Un rinvio lunghissimo che sa di punizione – il commento di Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia, mentre si svolgeva un sit-in dell’associazione all’ambasciata egiziana a Roma – Quel giorno saranno trascorsi 22 mesi dall’arresto: 22 mesi di crudeltà e sofferenza inflitte a Patrick, ma anche di grande resistenza da parte sua».

Nelle stesse ore Tarek al-Molla, ministro egiziano del petrolio, si trovava al salone dell’energia di Ravenna, l’Offshore Mediterrean Conference and Exhibition. Una presenza non casuale visti gli stretti legami che l’Italia, attraverso l’Eni, mantiene con il settore energetico del Cairo dopo la scoperta dei mega giacimenti sottomarini di Zohr e Noor.

Ai giornalisti che gli hanno chiesto conto del processo Zaki, ha risposto come ogni esponente del governo egiziano ha trattato finora il caso dello studente e l’omicidio del ricercatore Giulio Regeni: «È una questione che viene trattata in tribunale dalle autorità giudiziarie e come ministro non posso rilasciare commenti. Le nostre istituzioni sono indipendenti».

Nessun accenno alle iniziative parlamentari, italiane ed europee, sul tavolo. Né alle due mozioni votate quest’anno da Camera e Senato che chiedono al governo di concedere a Zaki la cittadinanza, né alla lettera di 40 eurodeputati, inviata ieri alla presidente della Commissione Ue Ursula Von der Leyen e all’Alto rappresentante Ue per gli affari esteri Josep Borrel, su iniziativa degli italiani Pierfrancesco Majorino (Pd) e Fabio Massimo Cataldo (M5S).

Si chiede a Bruxelles «una forte presa di posizione per chiedere l’immediata liberazione di Zaki, come già richiesto peraltro dal Parlamento europeo», con una risoluzione dello scorso 18 dicembre.

Insomma, muovere la diplomazia in attesa del 7 dicembre, anche alla luce degli sviluppi giudiziari: inizialmente accusato (ma senza rinvio a giudizio) di diffusione di notizie false, istigazione alla protesta e propaganda sovversiva, oggi su Patrick pende solo la prima accusa a partire da un articolo del luglio 2019 in cui raccontava le discriminazioni subite dai copti egiziani. Per la procura, un articolo con lo scopo «di danneggiare gli interessi nazionali e creare allarmismo nell’opinione pubblica», reato che non prevede appello.

È il tentativo di dare un corso legale a una persecuzione che non ha basi reali. Senza strumenti, si va comunque a processo portando sul banco degli imputati la realtà del paese. In questo Patrick non è il primo egiziano a subire una repressione simile.

L’ultimo è il professore di comunicazione all’Università del Cairo, Ayman Mansour Nada: è stato arrestato ieri per aver criticato pubblicamente il rettore del suo ateneo e figure vicine al regime, per aver accusato il governo di censura sui media e di aver lodato la diaspora egiziana, più capace di raccontare la realtà a chi è rimasto nel paese di quanto non lo facciano giornali e tv nazionali. Per questo era stato licenziato lo scorzo marzo, ieri l’arresto, oggi la prima udienza con le accuse di «intimidazione e disturbo delle istituzioni statali».