È arrivata ieri pomeriggio, totalmente inaspettata, la notizia della morte improvvisa di Zaha Hadid. Era ricoverata a Miami per una bronchite e nella mattinata è stata stroncata da un infarto. Non c’erano avvisaglie e ufficialmente Zaha godeva di buona salute. Nata a Baghdad nel 1950, aveva prima studiato matematica a Beirut e poi, dal 1972, si era trasferita a Londra per studiare all’Architectural Association, in quel momento il centro più vivace e progressivo della ricerca architettonica. Qui era entrata in contatto con due giovani molto promettenti, Rem Koolhaas ed Elia Zenghelis, che dopo la laurea del 1977 aveva raggiunto nello studio Oma (Office for Metropolitan Architecture). Dal 1979 Hadid, mossa da un’energia creativa non comprimibile in un collettivo, apre a Londra il suo studio professionale, «Zaha Hadid Architects», che guidava ancora oggi con enorme successo insieme al partner associato all’inizio del secolo, Patrik Schumacher.

Cresciuta nell’ambito della generazione più creativa del dopoguerra e nell’ambiente culturale più stimolante del suo tempo, Hadid raggiunge la notorietà nel 1983 con il progetto di concorso per l’Honk Kong Peak Club, scelto e mai realizzato, ma capace di mostrare al mondo la qualità pittorica, matematica e visionaria a un tempo della talentuosa progettista. Da quel momento la sua carriera è una crescita senza rallentamenti. Prima alcuni piccoli cameo, a partire dal Kurfusterdam di Berlino, del 1986, e dalla bellissima Fire Station del campus Vitra (1993), poi gli edifici più importanti, corrispondenti alla maturità progettuale e professionale. Tra questi il MAXXI, inaugurato nel 2009 ma disegnato nel 1999, e il centro ricerche della Bmw a Lipsia, completato nel 2003.
Impegnata in diversi cantieri in Italia – la stazione navale di Salerno, quella dell’Alta Velocità ad Afragola, un complesso residenziale a Milano – Hadid ha certamente realizzato con il museo romano uno dei suoi progetti migliori (e più amati), sia per la potenza dinamica ed espressiva delle gallerie che «scorrono» tra via Guido Reni e via Masaccio che la grande qualità della sua «piazza», diventato davvero uno spazio pubblico centrale nella vita della città.

zahahadid

Nel 1988 Zaha Hadid era stata inclusa nei «magnifici sette» (Oma, Eisenman, Libeskind, Gehry, Tschumi, Coop Himmelblau) della mostra MoMA sulla Deconstructivist Architecture, certificando la sua appartenenza alla massima aristocrazia architettonica del pianeta: la stessa élite che di lì a qualche anno si sarebbe trasformata nella piccola tribù delle archistar, gli architetti autorizzati ad aspirare a uno status economico e di celebrità paragonabile a quello dei divi di mondi molto più mediatici. Il 2004 è un altro turning point per la carriera di Zaha, che è la prima donna a vincere il «Pritzker Prize» e che lascia sempre più spazio nello studio – e nelle sue escursioni didattiche – alle ricerche sull’architettura parametrica e digitale, quella basata su forme continue e calcoli matematici che non potrebbero realizzarsi senza computer.

Accetta in questo il contributo forte del suo socio Schumacher ma dà anche spazio alla sua prima passione universitaria, la matematica. Da allora la produzione e l’importanza dello studio Hadid crescono senza sosta, espandendosi – anche e soprattutto negli anni della crisi economica – grazie all’irresistibile appeal che il suo «stile» esercita presso i grandi committenti dei paesi emergenti. Nascono così i musei di Baku e Astana, gli interventi negli Emirati, l’Opera di Guangzhou, il Design Center di Seoul e numerosi altri progetti dalle forme sempre più sorprendenti e dalla dimensione sempre più grande. Nel 2011 Zaha sfata anche il «tabù Londra» – violato fino ad allora solo con un allestimento dentro la cupolona del Millennio – e realizza l’Acquatic Centre per i giochi Olimpici, un progetto intelligente e pronto a ridursi a struttura di quartiere dopo le Olimpiadi. I riconoscimenti londinesi proseguono con due «Stirling Prize», uno appunto per il MAXXI e l’altro per un progetto potente come la Evely Grace Academy, sempre a Londra.

Nel 2016 è ancora la scena architettonica inglese a «risarcirla» per un successo in patria mai considerato sufficiente. I tempi (anche economici) sono tiranni e l’architettura di Zaha, mai molto low cost, era stata negli ultimi tempi al centro di una polemica per uno stadio olimpico che la città di Tokyo, forse ripensandoci un po’ troppo tardi, non vuole costruire. Con la Hadid se ne va una protagonista scorbutica e travolgente dell’architettura di una generazione sublime, una progettista dal talento vero e dalla capacità professionale infinita, a dispetto (e forse in ragione) della sua intransigenza. A conti fatti è una fortuna che abbia realizzato a Roma una delle sue opere migliori e che la città, in un lampo di saggezza, non abbia riservato al suo edificio la solita accoglienza sospettosa e ostile che riserva alle opere moderne. Sleep well.