«Nell’ottobre del 1945 il nostro quartetto – vale a dire i miei genitori, mia sorella e il sottoscritto – intraprese un viaggio di due settimane da Leopoli a Gliwice. Le tombe di famiglia rimasero all’Est. I nostri penati devono aver esitato non poco prima di risolversi ad accompagnarci in quell’incerta spedizione su un carro merci. Erano spiriti di notai, insegnanti, medici, nobilotti disarcionati dal destino che avevano condotto esistenze spesso incerte, mangiando il pane altrui». È questo l’evento fatale che imprime un segno indelebile sull’esistenza di Adam Zagajewski, il poeta polacco che – nato allora da pochi mesi, nel giugno dello stesso 1945 – lascia per sempre una terra non più appartenente alla Polonia, ma ritornata parte dell’Ucraina sovietica, dopo la Conferenza di Jalta. Il trasferimento e la sua formazione di déraciné sono rievocati da Zagajewski nelle pagine di Due città, una splendida prova autobiografica che si legge in italiano in Tradimento, la raccolta di prose pubblicata da Adelphi nel 2007. Si potrebbe ripetere allora, per Zagajewski, quanto ha scritto per sé un altro grande cittadino d’Europa, un suo maestro e amico nato in una terra diventata poi «altra» dalla Polonia – la Lituania – cioè Czesław Miłosz: «La vera patria, perduta, si trova nel passato. Il presente è sentito come esilio». La poesia di Zagajewski in effetti non potrà più a fare a meno di quel trauma storico e fondativo, di quel bene perduto, come testimoniano forse meglio di tutti questi ipnotici versi del 1985: «Andare a Leopoli. Da quale stazione andare / a Leopoli, se non in sogno, all’alba fare solo le valigie, sempre, ogni giorno / e andare fino all’ultimo respiro, andare / a Leopoli, è infatti pur vero che esiste, / serena e pura come una pesca. / Leopoli è ovunque».
La poesia di Zagajewski poteva già contare, in italiano, su un’antologia preziosa – e ancora una volta adelphiana – Dalla vita degli oggetti, a cura di Krystyna Jaworska, che copriva gli anni 1983-2005 (cioè un periodo che si distingue da quello, più immediatamente engagé, dell’adesione di Zagajewski al gruppo Nowa Fala, la nouvelle vague polacca che si afferma intorno al ’68). E nel 2019 Interlinea pubblicava un’altra, più agile scelta, a cura di Valentina Parisi (Prova a cantare il mondo storpiato). Ora il lettore può ripercorrere il suo cammino in Guarire dal silenzio Nuovi versi e poesie scelte (Mondadori «Lo Specchio», pp. 298, € 22,00), allestito per le ottime cure – vedi le note e la Postfazione, oltre alla notevole traduzione – di Marco Bruno. Il libro è soprattutto l’occasione per ascoltare la voce di Zagajewski per come questa si è rimodulata negli ultimi vent’anni circa, in particolare in Asimmetria (2014) e nell’ultima raccolta – La vera vita, del 2019 – da cui qui si attinge ampiamente. Ed è lo stesso ordinamento del volume, che comincia con i versi più recenti e risale verso l’inizio della parabola zagajewskiana – il Comunicato del 1972 –, a spingere il lettore verso gli ultimi frutti di questo fertilissimo poeta. Succedeva qualcosa di simile, pochi anni fa, per l’antologia di un altro faro della poesia contemporanea, l’olandese Cees Nooteboom, con l’einaudiana Luce ovunque 2012-1964: un segnale, magari indiretto, del fatto che la grande poesia proprio non riesce a sincronizzarsi pacificamente con la Storia?
Verrebbe quasi voglia di crederlo, perché è vero che i versi di questo poeta certo non rinunciano a respirare e a nutrirsi dell’aria del tempo, e talvolta anche a intervenire in presa quasi diretta (come in Assemblea di Varsavia, del novembre 1981, o in 6 luglio 1980, entrambe poi raccolte in Lettera. Ode alla molteplicità, pubblicata pochi anni dopo, nel 1983). Ma in Zagajewski alberga soprattutto una specie di incapacità di stare nel proprio secolo, un profondo rimpianto, che può prendere anzitutto le forme di una desiderata alterità temporale. E può arrivare volentieri all’impiego dell’anacronismo, o comunque di una qualche sfasatura, di una crepa nell’ordine del tempo. Accade, per esempio, in una maestosa, epica poesia intitolata Le grandi navi: «Ecco una poesia sulle grandi navi, che si aggiravano un tempo sugli oceani /e a volte gridavano, con voce profonda, i loro lamenti alla nebbia e alle rocce subacque / (…) E tutto ciò che c’è adesso esisteva già allora, ma solo in grande sintesi. / I nostri giorni esistevano già e nello stridente forno si cocevano i nostri cuori…». Oppure, ecco ravvivarsi un topos irrinunciabile per la poesia moderna, quello del ritardo: «Ma ormai è troppo tardi / e non potrai mai sapere / chi cantava, quale musica / e quale fosse il suo appello» (Durante una passeggiata).
Alla stessa dimensione, alla stessa voglia di altrove, appartiene anche un’altra attitudine tipica della poesia di Zagajewski, quella del transito, abbia questo le forme della flânerie trasognata o del vero e proprio viaggio. O magari del passaggio negli interstizi del tempo, nei binari marginali di quella che lui stesso ha definito la «vita ordinaria». Viene in mente che già nel 1930, in un saggio su Baudelaire, T.S. Eliot registrava la nascita, con il poeta delle Fleurs du mal, di una poesia fatta di partenze e sale di attesa. Cacciatore seriale di nostalgie, Zagajewski è l’erede perfetto di una tale linea genealogica (nel già citato Comunicato persino un’intera città poteva essere trasfigurata in una «sala d’attesa piena di sedie mobili», e stazioni e aeroporti torneranno poi continuamente). Un sapere amaro è il suo, «troppo amaro / come le grigie fredde onde del mare del Nord», in versi che si ricordano proprio del Voyage baudelairiano e del suo «amer savoir».
Ed ecco il poeta pronto, in effetti, a rappresentarsi spesso nella figura del turista («Sono solo un turista distratto / ma amo la luce», ne La valigia, che è vero oggetto totemico e madeleine di Zagajewski); o dell’osservatore-lettore occasionale e cittadino (Il caffè); o, più nobilmente, del viandante: «Non so chi siamo noi – forse siamo degli itineranti», si legge nella bellissima Lezione di pianoforte, ancora ossessionata dalla Leopoli perduta. Una poesia nella quale l’unico possesso certo è proprio quello di una parola da opporre all’oblio, al disfacimento, a un silenzio da cui guarire ma insieme da rispettare quasi sacralmente («perché la guerra finisce con morti e discorsi / ma comunque è sempre il silenzio a vincere»).
Sarà anche per questa perpetua condizione di pellegrinaggio doloroso negli spazi dell’esistenza che si avverte spesso, nei versi di Zagajewski, un aroma di provvisorietà, un fortissimo – da sempre – senso della fine: «C’è un momento / in cui le vecchie parole non hanno più valore né importanza / e nuove parole ancora non ci sono / un momento in cui tutti i trionfi si rivelano essere / banali travisamenti / (…) mentre la speranza non possiede in propria difesa / neanche una parola» (La fine del mondo, 1975). E non è un caso che la sua poesia sia costantemente attraversata da una sensibilità acuta per la morte. Il pensiero degli scomparsi si riaffaccia volentieri fra i suoi testi, dai semplici compagni di strada fino alle figure della madre e del padre, che si ritagliano non poco spazio anche nei versi degli ultimi anni. Fino a un già ricordato maestro come Milosz, che ne La mano invisibile (2009) era il dedicatario di una lirica, Un grande poeta se ne va, che non è solo un atto di omaggio, ma la migliore conferma che proprio nel momento della perdita irreparabile e del distacco, proprio lì si fa più indispensabile – e insieme più chiara – la voce della poesia. In questa strana eppure durevole necessità, si nasconde una fede implicita di Zagajewski, non esibita né coltivata, ben al riparo da ogni vizio retorico: la fiducia nella poesia (da qui anche i molti testi consacrati ai poeti di ogni tempo, dai Greci a William Blake). Così come, più in generale, una fiducia nella realtà, e sia pure contro ogni ragionevole senso comune («I cosmonauti sovietici dicevano di non aver trovato / Dio nello spazio, ma l’avevano cercato?»). Anche di questa naturale forza c’è di che essere grati a questo grande poeta: della sua capacità di mettere in salvo ricordi e dettagli mentre la musica ammutolisce, o mentre si assiste a un sole che tramonta. Del suo impulso a tendere l’orecchio anche «nel momento buio» e accorgersi che «sottovoce, canta incerto l’ultimo merlo».