«Perché avete ammanettato un morto?», sulla via Gladstonos, a pochi passi da piazza Omonia, centro nevralgico di Atene, la domanda è scritta su una saracinesca, da tre anni sempre serrata. Nel settembre 2018, in pieno giorno, intorno ai tavolini dei café della strada pedonale dove si attardano i lavoratori in pausa pranzo, Zak Kostopoulos, noto attivista lgbtq+, è stato picchiato a morte da due uomini.

DOPO TRE ANNI DI ATTESA, il 20 ottobre scorso ha preso il via ad Atene il processo contro i presunti colpevoli. Gli imputati per lesioni personali aggravate sono sei, in un caso che ha riportato in superficie alcuni dei problemi irrisolti del Paese, come l’abuso sistematico delle forze dell’ordine, la cultura omofobica e la polarizzazione dell’opinione pubblica attraverso i canali di informazione.

Per ragioni legate alle norme sanitarie, soltanto quattro rappresentanti di osservatori, come Amnesty International, sono stati ammessi nell’aula del tribunale: tra questi c’è Nancy Papathanasiou, dell’associazione ateniese Orlando Lgbt+. «Quello che è accaduto a Zak poteva accadere a ognuno di noi» spiega. Molte dinamiche dell’omicidio non sono ancora chiare, ma il processo ha assunto già una valenza più ampia: «Zak era un simbolo, apertamente gay e sieropositivo, si esibiva come drag queen: il suo linciaggio in pieno giorno ha dato forma alle nostre peggiori paure».

TRA GLI IMPUTATI figurano il proprietario di una gioielleria – dove Zak è rimasto intrappolato per motivi sconosciuti – e un suo amico, già coordinatore di un piccolo gruppo politico di estrema destra, ma anche quattro poliziotti che, una volta giunti sul luogo del pestaggio, hanno continuato a malmenare Zak, ormai inerte, e lo hanno ammanettato. Quando l’ambulanza è arrivata in ospedale, l’attivista era deceduto per un infarto provocato dalla violenza delle botte.

Nella prima fase delle indagini gli agenti di polizia sono stati difesi da Thanos Plevris, attuale ministro della Salute, ex membro del partito di estrema destra Laos, che dopo la sua nomina ha chiesto formalmente scusa alla comunità ebraica per i suoi precedenti commenti su Auschwitz, e ha rinunciato al suo incarico di avvocato per incompatibilità dei ruoli.

IN UN EVENTO NON INEDITO per la storia recente greca, la società civile si è sostituita presto nelle indagini alla Polizia, accusata di avere insabbiato il procedimento. «Gli elementi decisivi sono stati raccolti su iniziativa dei parenti: non avevamo né video né testimoni – spiega Anny Paparousou, avvocata della famiglia Kostopoulos – mentre il negoziante ha ripulito il negozio senza che nessuno intervenisse».

Dalle inchieste sui bombardamenti in Yemen a quelle sulle torture nelle prigioni in Myanmar, l’agenzia Forensic Architecture, con base a Londra, è nota per le sue indagini sulle violazioni dei diritti umani, eseguite attraverso ricerche open source e ricostruzioni di ambienti virtuali per simulare le dinamiche dell’evento: nel 2018 riceve la chiamata della famiglia Kostopoulos.

Già cinque anni prima l’agenzia aveva contribuito alle indagini sull’assassinio del rapper Pavlos Fyssas per mano dei militanti di Alba Dorata: lo studio del filmato delle telecamere nella zona aveva dimostrato come la polizia greca, al contrario di quanto dichiarato, era presente al momento dell’omicidio.

«Nel caso di Zak l’archivio video era incredibilmente povero, per un evento accaduto in pieno giorno, e ripreso da decine di passanti: la maggior parte di questi, immagino per paura, non ha mai diffuso i propri filmati» spiega Nicholas Zembashi, parte della squadra che si è occupata di scandagliare i video disponibili e ha rintracciato quello che potrebbe rivelarsi un testimone chiave nel processo. «L’abuso subito da Zak è continuato dopo la sua morte: nelle indagini approssimative e nel racconto della stampa».

INIZIALMENTE I MEDIA greci e i due autori del pestaggio avevano dipinto Zak come un ladro armato di coltello e intenzionato a svaligiare la gioielleria. Gli accertamenti e gli esami tossicologici successivi, tuttavia, hanno presto accertato che Zak era disarmato e non aveva assunto sostanze stupefacenti. Nel frattempo, la narrazione dei media diventava sempre più violenta: una delle principali radio ateniesi mandava in onda sondaggi secondo i quali «un greco su tre non vuole un vicino omosessuale», 240 giornalisti prendevano posizione contro i colleghi responsabili, con la loro narrazione, di «cannibalismo sociale», mentre in un raro intervento dell’Autorità di controllo per la radiotelevisione, il canale Apt veniva multato per avere offeso il defunto.

Il fratello di Zak, in tribunale, ha ricordato come il fratello fosse spesso vittima di aggressioni per strada: «È stato un crimine dettato dall’odio. Non so se quel giorno avesse le unghie smaltate o indossasse l’eyeliner: se fossi stato io al suo posto non sarebbe successo. Hanno pensato che la sua vita non valesse nulla».

In via Gladstonos, una nuova targa, dedicata a Zackie Oh – il nome da drag queen di Kostopoulos – copre quella precedente. Non lontano da lì, in quello che un tempo era il teatro Lusitania, nel 1977 venne organizzata la prima protesta lgbtq+ contro un disegno di legge “sulle malattie veneree” del governo di Konstantinos Karamanlis, che puniva con la reclusione di un anno «l’uomo che si aggira per i luoghi pubblici con lo scopo evidente di attirare maschi e avere rapporti sessuali».

DAL 2015, NEL GIRO di pochi anni, il Parlamento greco ha approvato leggi decisive come quella sulle unioni civili e sull’affidamento per le coppie omosessuali, e sulla modifica della propria identità di genere. Ma secondo uno studio dell’Unione europea, nel 2019 solo il 64% dei greci riteneva che le persone lgbtq+ dovessero avere gli stessi diritti degli eterosessuali. Nell’agosto scorso, il metropolita del Pireo ha detto di ritenere gli incendi che hanno devastato il Paese di recente «una punizione divina» per le leggi sui diritti lgbtq+.

«Non è un caso che il primo giorno del processo sia stato impiegato a verificare se Zak fosse un drogato, un alcolizzato, un delinquente con problemi di salute o finanziari», riflette Nancy Papathanasiou. «Eppure l’imputato non è lui, ma chi lo ha ucciso».