Nel 1957 una folta delegazione di scrittori sovietici guidata dal famigerato segretario Aleksej Surkov visitò l’Italia, e l’insistente richiesta di Angelo Maria Ripellino ottenne che alla delegazione fosse aggregato anche il poeta Nikolaj Zabolockij, che lo slavista italiano aveva già tradotto considerandolo uno dei più importanti poeti del suo tempo. Zabolockij, che si affermò negli anni Venti accanto a Daniil Charms e Aleksandr Vvedenskij nell’ultimo gruppo letterario d’avanguardia, gli Oberiuty, aveva pubblicato nel 1929 il volumetto Colonne di piombo, una splendida raccolta di vivaci poesie ironiche e sperimentali, che ci sarebbe poi stata proposta da Vittorio Strada nel 1962.

Malgrado il successo del libro, le sempre maggiori difficoltà incontrate negli anni di affermazione dello stalinismo indussero Zabolockij a trovare rifugio nella letteratura per l’infanzia. Solo sull’onda della grande svolta voluta dal partito a partire dal 1929, provò a cimentarsi in un poema che intendeva confrontarsi con le sfide del suo tempo, in particolare, lo smantellamento della tradizionale vita contadina e la collettivizzazione forzata del paese: Il trionfo dell’agricoltura esce ora in traduzione italiana a cura di Claudia Scandura (Del Vecchio, pp. 160, € 15,00), corredato da un ampio apparato di note e da un corposo saggio di presentazione dell’opera e della sua storia testuale.

Oggetto di duri attacchi da parte della critica ufficiale sovietica, il poema sarebbe stato furiosamente denigrato in un saggio delatorio di N. Lesjucevskij che provocò l’arresto dello scrittore nel 1938. Zabolockij tornò dal Gulag nel 1944, e si dedicò da allora alla traduzione poetica (anche di Umberto Saba) pubblicando altre due raccolte di versi, la seconda nel 1957, l’anno prima della morte, e del suo viaggio in Italia.

Vivida riflessione sul mondo contadino russo, che Zabolockij ben conosceva essendo il padre agronomo, e sul rapporto tra l’uomo e la natura, il testo anticipa temi dell’odierno dibattito su ecologia e mutazioni climatiche, mentre affronta l’industrializzazione e la collettivizzazione forzata delle terre che il socialismo imponeva in modo violento e radicale, squassando alle fondamenta un modello di vita, quello della campagna russa, in gran parte rimasto immutato da secoli e trasformando dolorosamente il rapporto tra uomo e natura. Zabolockij sviluppa il suo pensiero in un testo che si costruisce in forma dialogata, risentendo del teatro sperimentale di Nikolaj Evreinov e riecheggiando il pensiero filosofico e scientifico del tempo, dalla teoria della resurrezione delle anime del filosofo Nikolaj Fëdorov, alla questione della biosfera avanzata da Vladimir Vernadskij, alla «filosofia cosmica» del padre della cosmonautica sovietica, Konstantin Ciolkovskij.

Molteplici, ovviamente, i riferimenti letterari, dalla poesia visionaria del futurista Velimir Chlebnikov ai versi «contadini» di Sergej Esenin, fino al ferino mondo primordiale di Andrej Platonov. Nel poema, suddiviso in un prologo e sette capitoli, animali e contadini dibattono sull’esistenza dell’anima e sul ruolo dell’uomo – «intelletto della natura» – nel creato, confidando in uno sviluppo armonico della società e in una nuova età dell’oro. Un toro molto saggio dialoga con un cavallo, un soldato e un trattorista discutono delle nuove macchine da lavoro, anche un vecchio aratro prende la parola.

Allo stesso tempo, in una disputa con gli antenati si affronta la dolente questione del kulak, il contadino ricco che le riforme staliniane avrebbero spazzato via. Se all’epoca il poema fu ritenuto dalla critica marxista una pasquinata, oggi costituisce una delle più vive testimonianze sulla cifra utopica di quell’esperienza contraddittoria e tragica che fu il socialismo sovietico, oltre a offrire al lettore tutto l’incanto di una luminosa fantasia creativa e un esempio di leggerezza del pensare in versi.