Pochi artisti più di Yves Klein, scomparso a soli trentaquattro anni (1928-’62), possono vantare un’influenza così profonda sulle pratiche artistiche degli anni sessanta e settanta. «La monocromia, l’antipittura, lo spostamento dell’attenzione sulla scultura e sull’installazione, la smaterializzazione dell’arte, il rifiuto dell’illusione, l’inclusione degli objets trouvés e dei nuovi media, la Body Art, la Land Art, l’Arte Concettuale e la Performance», così ricapitola Thomas McEvilley in una documentata biografia ora tradotta in italiano (Yves il provocatore Yves Klein e l’arte del Ventesimo secolo, traduzione di Irene Inserra e Marcella Mancini, Johan & Levi, pp. 252, euro 25,00). Eppure pochi artisti più di Klein furono così incompresi, se pensiamo all’accoglienza tiepida negli Stati Uniti, che visitò nel 1961. Il personaggio Klein era percepito come un Dalí dandy ma meno geniale, il cui estro catalano lasciava spazio a una sofisticheria parigina che in Klein si tinge presto di ridicolo, o tutt’al più di un neodadaismo misticheggiante e fumoso. Un Rauschenberg indispettito minacciò, assieme al compagno Jasper Johns, di abbandonare la galleria di Leo Castelli se, dopo la mostra dell’aprile 1961, Klein avesse ricevuto ulteriori incoraggiamenti.

Niente di cui sorprendersi: non appena ci si avvicina all’arte di Klein – alle opere quanto al personaggio – si è costretti a gestire una serie di impasse: «da una parte il monocromo metafisico e l’approccio solenne al vuoto; dall’altra le performance che parodiavano la solennità, l’ironia decostruttiva, le buffonate da clown», riassume McEvilley, che insiste sulla polarità Malevich/Duchamp, dai quali Klein tenne un’equa distanza se non un oculato, strategico disinteresse.

La biografia di McEvilley è uno strumento essenziale per comprendere il fenomeno Klein, in cui opera e vita sono indistinguibili. Ostinarsi a inscrivere i suoi celebri monocromi blu esclusivamente all’interno di una storia dell’astrazione modernista vuol dire mancare l’essenziale, per quanto articolati siano questi tentativi, come la mostra Colour after Klein. Re-thinking colour in modern and contemporary art al Barbican di Londra (2005). Gli oltre mille oggetti che Klein ha prodotto nel corso di una carriera durata solo sette anni (dal ’55 al ’62) rischiano di disseminarsi allo sguardo di quanti sorvolano i dettagli della sua esistenza. Perché la sua carriera artistica non cominciò con le prime esposizioni ma molto prima, in uno spazio-tempo – in uno spazio senza tempo – tinto di mitologia.

Nel segno dei Rosacroce

È a Nizza, a fine ’47, quando immagina di firmare il cielo facendone un’opera, che Klein acquista la Cosmogonia dei Rosacroce, uno dei rarissimi libri che divorò e che lo influenzarono. Per decifrarlo contattò Louis Cadeaux, «un settantenne che con discrezione svolgeva l’attività di astrologo, occultista e proselitista per l’Associazione rosacrociana», il quale gli impartì lezioni di oroscopo e meditazione per sei anni. Nel frattempo studiava con assiduità le dispense inviate dall’associazione di Oceanside (California) due volte a settimana.

Questa radice metafisica, questa forma di alchimia psicologica in cui il codice rosacrociano di Max Heindel s’ibrida coi fumetti di Tintin o Mandrake, fu il vero apprendistato di Klein, che non terminò mai la scuola per motivi disciplinari. Egli impregna ogni sua cellula e neurone di una cosmologia che vaticinava il ritorno imminente dell’uomo a una condizione edenica, a un’umanità che, abbandonata la gravità della forma e della materia densa, raggiunge lo Spazio grazie alla levitazione.

A tal fine, corpo e mente dovevano sottomettersi a una ferrea disciplina. Klein imparò a restare tre ore immobile nella posizione del loto, si sottopose a lunghi digiuni, praticò esercizi tantrici di visualizzazione, diventò vegetariano, si astenne da sesso, alcool e fumo. «In quegli anni, il mistico controllò la sua vita con istruzioni minuziose e dettagliate su cosa, quanto e con quale frequenza mangiare, come respirare e persino come sognare». Un corpo adamantino che Klein forgiò poi attraverso lo judo.

Prima di fondare scuole di judo a Parigi e Madrid, si formò al prestigioso Istituto Kodokan di Tokyo (1952), dove ottenne in modo rocambolesco il quarto dan di cintura nera (che non gli fu riconosciuto dalla Federazione francese!).

Potremmo continuare a lungo con le vicende biografiche. Decisivo è tuttavia lo slittamento di piani in cui è contenuto tutto il fenomeno Klein e che costituisce difatti il vero miracolo compiuto dall’artista: ovvero il momento in cui il codice rosacrociano e lo judo s’incuneano sulla piattaforma delle avanguardie del ventesimo secolo. Sin dal viaggio in Inghilterra del ’50 Klein realizzava piccoli monocromi a pastello su cartone; con la compagna Bernadette ne realizzerà altri con dei rulli su carta pergamena ed esposti nella cucina della madre. Finché, nel ’55, dipingendo tra una lezione e l’altra nella sua scuola di judo in boulevard de Clichy – un ex atelier di Léger – intuisce che la monocromia, come appuntò, è «una sorta di alchimia dei giorni nostri praticata dai pittori».

Il mondo dell’arte parigino, c’era da aspettarselo, non era disposto ad accogliere di buon grado i riferimenti al rosacrocianesimo – «e fu preso in giro. Non ripeté l’errore una seconda volta. Da allora, la fenomenologia fece da schermo al rosacrocianesimo per il mondo esterno e il Neodadaismo fornì una via di fuga da spiegazioni e richieste di coerenza». È il momento in cui Klein riformula le sue posizioni attraverso un linguaggio ispirato a Gaston Bachelard. Camuffamenti che non devono farci dimenticare che, secondo McEvilley, «è un errore fondamentale (ancorché comune) ignorare il tono mistico e miracolistico degli scritti di Yves leggendovi un atteggiamento vacuo o un’ostentazione dada». Una lettura che permette tra l’altro di evitare la trappola del sublime, una tradizione culturale con cui Klein non era familiare.

I gesti di Klein

La centralità delle vicende biografiche nella costruzione del mito personale e artistico di Klein ha delle ricadute sulla considerazione della sua opera. Klein non creò opere ma gesti, non opere con una gestazione extra-artistica (judo-rosa-crociana verrebbe da dire), ma gesti che nel tempo si caricarono di artisticità. Non usò il suo nome o un semplice pseudonimo ma titoli altisonanti («Yves le Monochrome») e costumi per diverse occasioni pubbliche. Non creò sculture ma spugne o Architecture de l’air; non rappresentazioni ma impronte; non dipinti ma atmosfere volumetriche; non oggetti ma creazioni dell’invisibile; non colori ma formule (l’IKB o International Klein Blue); non le cose ma la presenza invisibile del vuoto, astratto ma non per questo irreale al punto che può essere esposto e impregnarsi di sensibilità. Klein non smerciò opere ma aria o blocchi di vuoto. Non aspirò a un superamento dell’Informale ma alla proclamazione di una nuova Era, perché tenne come orizzonte non la storia dell’arte bensì il cosmo: «Al di là della mia modesta persona, è la brusca estrapolazione di quattro millenni di civiltà che viene a trovare il suo definitivo coronamento», scrisse dopo aver esposto il vuoto. Non articolò una pratica artistica ma un progetto trascendentale vertiginoso.

Il regno dell’impossibile

Come si legge nella preghiera che accompagna il monocromo blu donato al santuario di Santa Rita da Cascia (dove si recò quattro volte in pellegrinaggio): «Che l’Impossibile arrivi presto e fondi il suo regno». Con la sua opera Klein tentò precisamente di fondare questo regno. Come disse l’amico Tinguely: «Era troppo impaziente. In lui c’era una tale angoscia, una tale aspirazione al paradiso che non poteva aspettare»; «Per Yves la megalomania era uno stato naturale, non qualcosa di acquisito»; «Aveva uno straordinario potere di vivere un’esistenza immaginaria».

Klein criticò il ruolo dell’artista in opere sempre più purificate dalla sua personalità e dal suo tocco. Ma lo fece con gesti così originali, così insufflati di valore estetico, che diventarono più leggibili di una firma apposta sulla superficie di un dipinto. Fu impossibile per Klein divaricare ulteriormente lo spazio tra l’opera e il suo artefice. Bisognava superare l’orizzonte dell’arte e ritornare alla vita reale, ma questo compito spettava agli artisti, anzi allo stesso Klein, «messaggero dell’era dell’antiarte». Tra i rompicapi che attraversano la sua opera, questo resta senza dubbio il più prezioso per l’arte del ventesimo secolo.