I curdi, vittima sacrificale della moribonda Alleanza atlantica, al vertice Nato li ha portati il più insospettabile: il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Facendo seguito a giorni di schermaglie con il presidente francese Macron, ieri Erdogan ha lanciato il suo anatema. E la sua minaccia: il veto ai piani Nato per la difesa in Polonia e nei paesi Baltici se gli alleati non etichetteranno come terroriste le unità di difesa popolari curde Ypg e Ypj. Quelle che hanno sconfitto l’Isis.

Il cortocircuito è plastico: i piani atlantici per Lituania, Estonia, Lettonia e Polonia vanno ovviamente letti in chiave anti-Russia, la potenza che appena un mese e mezzo fa ha certificato l’occupazione turca del nord est siriano, della regione a maggioranza curda Rojava.

Erdogan ricambia a modo suo, con un veto che ufficialmente è inaccettabile dai paesi membri della Nato. Ufficialmente, visto che i curdi sono stati già ampiamente abbandonati. Il presidente turco vuole di più, vuole che si applichi l’articolo 5 sulla difesa interna dell’Alleanza, come se le Ypg/Ypj stessero minacciando la sicurezza turca, e vuole l’endorsement europeo sulla sua safe zone nel nord est siriano.

Della questione si è già dibattuto, sotto forma di dichiarazioni al vetriolo scambiate con Macron, contrario a ciò che ha definito un «disastro umanitario» – 230mila sfollati, centinaia di uccisi – che mina il ruolo delle Ypg contro l’Isis e il processo di pacificazione siriano (dimenticando il disastro in Libia guidato da Nato e Francia).

Ieri il capo dell’Eliseo ha rincarato la dose e lo ha fatto, non a caso, durante il colloquio con il presidente statunitense Trump, il cui ritiro è stato la luce verde all’operazione turca contro il Rojava: «Il nemico comune sono i gruppi terroristici – ha detto – ma mi dispiace dire che non diamo tutti la stessa definizione di terrorismo. La Turchia combatte con noi contro l’Isis, ma a volte lavora con alleati dell’Isis».

A gettare acqua su un fuoco pericoloso è il segretario generale Stoltenberg, deciso a salvare un vertice già a rischio di suo: sappiamo tutti, ha detto, che l’Alleanza ha un problema sulla questione Ypg, ma sta lavorando per risolverlo. Consapevole che ad aver garantito tanta forza ai turchi è la debolezza Usa, con Trump che è arrivato a definire i curdi più pericolosi dell’Isis per giustificare l’occupazione del Rojava.

Ma il punto, dirimente, sta nella mancata condanna – concreta, non a parole – dell’autoritarismo turco, che in Siria si traduce in un’occupazione militare illegale e crimini di guerra e in casa in una repressione politica con pochi precedenti.

Vittime predilette, di nuovo, le comunità curde e la loro espressione politica, il Partito democratico dei popoli. Lunedì sera, sette giorni dopo il grave malore che ha colto in cella l’ex co-leader dell’Hdp, Selahattin Demirtas è stato portato in ospedale.

Si era sentito male il 26 novembre nella sua cella nel carcere di massima sicurezza di Edirne, nel nord della Turchia: forti dolori al petto, difficoltà respiratorie e un lungo svenimento, come denunciato lunedì su Twitter dalla sorella e dal suo legale. Eppure le autorità carcerarie turche non hanno ritenuto necessario portarlo in ospedale. Fino alla denuncia di due giorni fa: in serata Demirtas è stato sottoposto ad accertamenti nei reparti di cardiologia, neurologia e gastroenterologia dell’ospedale universitario di Trakya.

L’accanimento giudiziario a cui è sottoposto scivola da tempo anche in campo medico. Il leader del partito di sinistra filo-curdo, il cui carisma ha saputo mettere insieme sotto un’unica bandiera le comunità curde, il mondo ecologista, quello femminista, i reduci di Gezi Park e la sinistra turca, è in prigione dal 4 novembre 2016, sommerso – come la ex co-leader Figen Yüksekdag – sotto oltre 120 inchieste e processi per i quali rischia almeno 140 anni di detenzione.

Ieri una delegazione del principale partito di opposizione, il repubblicano Chp, gli ha fatto visita in cella, mentre in parlamento il segretario Kilicdaroglu denunciava la detenzione «ingiusta e illegale».

Il caso Demirtas, punta dell’iceberg della repressione politica che il presidente turco Erdogan ha scagliato contro l’Hdp, è paradigmatico della deriva autoritaria di cui la Turchia è preda. Accusato di terrorismo, insulti al presidente e alle istituzioni, incitamento alla violenza, Demirtas è uno dei migliaia tra parlamentari, amministratori locali, sindaci, sostenitori dell’Hdp in prigione perché nemici politici.

Le ultime epurazioni (tra cui 20 sindaci e governatori curdi sostituiti da commissari governativi) le elenca Hisyar Özsoy, vice segretario Hdp: in vista del congresso nazionale del prossimo febbraio con cui il partito intende ridarsi slancio, «nelle ultime due settimane oltre 150 amministratori Hdp e sostenitori sono stati fermati e molti di loro poi arrestati. Il governo dell’Akp dice di aver preso misure per ristabilire la democrazia ma queste detenzioni mostrano come la legislazione di emergenza sia ormai permanente, i diritti sospesi».

Se n’era accorta esattamente un anno fa la Corte europea per i diritti umani che in una sentenza aveva chiesto l’immediato rilascio di Demirtas.