Nel 1959 nel corso di un festival di danza giapponese, Tatsumi Hijikata coreagrafò Kinjiki, uno spettacolo ispirato e tratto da Colori proibiti di Yukio Mishima. La performance finì con il principale danzatore, Yoshito Ohno, con un pollo vivo fra le gambe. Questo spettacolo è considerato ancora oggi come l’inizio del butoh, o ankoku butoh, una serie di pratiche a metà strada fra danza e spettacolo teatrale che nel corso dei decenni successivi si diffuse anche al di fuori dell’arcipelago giapponese.
Nella giornata di ieri si è diffusa la notizia della morte di Yoshito Ohno, uno degli ultimi grandi esponenti di quest’arte così difficile da descrivere e che non è mai stata codificata o per cui non esistono delle regole precise. Era figlio di Kazuo Ohno e allievo di Tatsumi Hijikata, coloro che durante gli anni sessanta crearono di fatto il butoh, in modi diversi ma capaci di incanalare intensità ed energie come pochi altre arti hanno saputo fare nel dopoguerra giapponese. Gli stessi Guattari e Deleuze vennero attratti durante gli anni ottanta, quando si interessarono all’arcipelago, dal butoh e dal suo peculiare modo di formare agganciamenti e relazioni con l’oscurità dentro e fuori di noi e con il resto del creato.

Yoshito aveva 81 anni ma era ancora impegnato in performance in giro per il mondo, aveva quindi continuato l’eredità di suo padre, scomparso nel 2010 a 103 anni, e quella di Hijikata, morto prematuramente nel 1986. L’eredità del butoh, così come fu concepito e soprattutto praticato nel secolo scorso è ancora viva attraverso discepoli o anche grazie a libri e film dedicati al butoh, specialmente con Kazuo Ohno e Hijikata protagonisti, ma è fuori d’ogni dubbio che la morte di Yoshito Ohno segna la fine di un epoca. Con la sua morte scompare l’ultima traccia di quel desiderio di rivolta, rivolta a 360 gradi che doveva per prima cosa far ritornare il corpo alla sua (non)essenza di carne, o viandre come avrebbe detto Artuad, che si compenetrò in maniera così profonda con l’evoluzione e le sperimentazioni artistiche giapponesi dagli anni sessanta in poi.

LA VISITA alla casa e studio di Yokohana durante la quale ebbi il privilegio di intervistare padre e figlio una quindicina di anni or sono, è indicativa di un modo di porsi verso la parola e la comunicazione che tanto rivela di certe qualità del butoh. Con Kazuo Ohno costretto su una sedia a rotelle e quasi incapace di parlare, tutta la coversazione fu portata avanti da un gentilissimo Yoshito, nel suo studio, una sorta di palestra con palchetti di legno. Più che le parole proferite furono i suoi gesti con le mani ed il suo alzarsi in piedi per mimare alcuni passi o far sentire il peso del corpo sul legno del pavimento, a dettare il tono della conversazione e infonderlo di significato.

COME figlio di Kazuo e come allievo di Hijikata, Yoshito ha cercato durante tutta la sua carriera di mettere insieme, o almeno di ibridare, le due diverse personalità che i due danzatori rappresentavano. Come lui stesso ci disse, entrambi nacquero in luoghi del nord, freddi, ma mentre Kazuo Ohno era originario di Hakodate, una cittadina portuale dell’Hokkaido, nel Giappone del nord, e quindi aperto verso il mondo ad influenze esterne, Hijikata nacque nella prefettura di Akita. Un luogo freddo ma soprattutto uno dei meno popolati dell’arcipelago e di quelli che erano al tempo meno urbanizzati, caratteristiche che si rispecchiavano nel suo modo di esprimersi e di coreografare, la danza di Hijikata era spesso chiusura e rattrappimento, quasi una morte per inerzia e gelo. L’importanza di Yoshito Ohno va oltre il suo esser stato parte del butoh degli inizi, è stato infatti importante anche come uno dei maggiori sostenitori dell’eredità artistica di suo padre, nei suoi innumerevoli viaggi all’estero era solito riproporre spettacoli, ma anche tenere conferenze ed incontri riguardo a Kazuo Ohno, figura per cui nutriva un rispetto artistico quasi incondizionato.