Non c’è contrapposizione tra le foto a colori qui e quelle in bianco e nero in questa pagina. Fanno parte tutte della stessa storia, quella di una sontuosa vallata californiana e dei suoi bizzarri visitatori. Una vallata tanto californiana quanto le spiagge dorate del Pacifico che tutto il mondo invidia.

La storia di Yosemite è la storia dell’alpinismo americano prima e mondiale poi. E come ogni epopea che si rispetti, anche la valle incantata circondata da mura di granito ha i suoi cantori. Uno di questi, non certo minore, è Glen Denny, alpinista, filmmaker e fotografo. Un artista capace di catturare un’istante arrampicando sospeso a cento metri da terra, quando la fotografia non era digitale e si doveva aspettare giorni prima di sapere se quello scatto nel rullino era buono come sembrava all’occhio.

La storia è che Yosemite, dagli anni Sessanta, diventa una meta per drop-out ed emarginati di un tipo molto particolare. I «conquistadores dell’inutile», così si autodefinirono, scalatori formidabili, poverissimi, popolarono il «camp 4» della valle.

yosemite in the sixties glen denny

Sfogliando le immagini di quell’epoca, raccolte in Yosemite in the Sixties (Glen Denny, Patagonia Books, 144 pp, 50 euro) e pensando all’arrampicata di oggi, ci si domanda dove sono le imbragature? Come si fa a scalare con quella ferramenta d’acciaio pesantissima?

Quegli «hippy» ante litteram, voltarono le spalle alle sabbie di Esalen e piantarono le tende all’interno, dentro parchi naturali, tra boschi e cascate. Consumando sostanze, amoreggiando con le poche donne che si avventuravano tra quelle tende, imparando a gestire i rischi mortali dell’ascesa, costruendo con le proprie mani le fratellanze e gli strumenti di quella passione collettiva.

A volte forgiandoli in proprio, con tanto di incudine, letteralmente, come il fondatore di Patagonia Yvon Chouinard.

Fatto sta che oggi quegli anni sono chiamati l’«età d’oro» di Yosemite. Anni in cui molte di quelle pareti lisce sono state «liberate» (come si dice) per la prima volta. In mesi e mesi di esperimenti in cui l’alpinismo americano, all’epoca innocente e inconsapevole (e un po’ invidioso di quello europeo), trovò forma, metodo, sostanza.

Epica, prima. Tradizione, poi.

Tutto, in quella valle, doveva ancora essere inventato e sperimentato. Vissuto, soprattutto. In un’incessante caccia a «guardie e ladri» con i ranger, qualche furtarello ai turisti, scalate irripetibili, freak, in cui il patriottismo austero del nostro alpinismo è sconosciuto. Non bandiere che «conquistano» vette ma individui. Liberi.

Un’esplosione di energia e immaginazione che darà i suoi frutti, anche estremi, nella generazione degli anni Settanta. Fino alle meravigliose imprese sportive di oggi.

Salire in vetta è solo l’inizio. Sempre.