La spiaggia di Yoff è un enorme tappeto di sabbia che si estende per chilometri e chilometri. «Un tempo dicono che arrivasse fino in Mauritania» dice Philippe, un francese che vive da 10 anni a Yoff, proprietario di un ristorante sulla spiaggia.

YOFF FA PARTE DELLA CITTÀ di Dakar, tuttavia gode di alcune autonomie amministrative, ma soprattutto possiede fattori culturali, economici e religiosi che la rendono ben distinguibile dal resto di Dakar. È il villaggio principale dell’etnia Lebu, popolo di pescatori, oggi messi a dura prova dagli accordi internazionali sulla pesca, che stanno depauperando i mari dell’Africa Occidentale, spingendo molti pescatori a mettere i remi in barca.

I Lebu sono in maggioranza pescatori che parlano una forma dialettale del wolof – la lingua più parlata in Senegal – e sono in maggioranza musulmani sunniti della confraternita Layane. Proprio qui, nel 1884, Seydina Mouhammadou Limamou Laye fondò la quarta confraternita sunnita musulmana del paese, chiamata appunto Layene, dopo quelle Xaadir, Tijaniyyah e dei Muridi (la più attiva e potente del paese). Gli adepti di questa setta hanno però usanze tutte loro: durante le abluzioni si lavano fin sopra le ginocchia; e il 25 dicembre si festeggia la nascita di Cristo con cerimonie religiose. Non è raro, durante le preghiere, citare passi della Bibbia.

Il leader religioso della setta è il Califfo, che rimane in carica fino alla morte. La Costituzione senegalese concede speciali autonomie a questa confraternita, inclusa una forma teocratica di governo della cittadina. Infatti solo all’interno di Yoff sono banditi gli alcolici.

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Adepti della confraternità Layene festeggiano la fine del ramadan al mausoleo Al Mahdi (foto di Federico Annibale)

 

IL VILLAGGIO È COSTRUITO sulla sabbia, le case l’una addossata all’altra. Piccoli vicoli portano verso la plage, l’Oceano, il punto più occidentale del continente africano. Sull’enorme spiaggia, l’attività intorno a un centinaio di piroghe tirate a secco è frenetica. Azibo, 40 anni, è emigrato in Francia 10 anni fa e ora è in vacanza a casa sua, qui a Yoff.

«UN TEMPO ANCH’IO ero pescatore, ma era diverso. Vedi, sono diventato pescatore perché mio padre era un pescatore, e perché noi Lebu abbiamo sempre fatto questo», racconta Azibo, seduto in uno dei tanti casottini che forniscono ombra e riposo ai pescatori sul litorale. «Nessuno prima era proprietario di una barca. Ma tutti potevamo usarne una, perché Yoff è diviso in comunità, e ognuna di queste era collettivamente proprietaria di un’imbarcazione per la pesca». Ancora oggi questo senso comunitario rivive quando una barca torna dalla pesca e decine di persone vanno incontro ai pescatori per aiutarli a mettere l’imbarcazione a secco usando grosse bombole arrugginite sulle quali scorre la piroga.

MA ANCHE QUESTO sta cambiando. «La comunità si sta disgregando» dice sconsolato Azibo. Infatti, ormai le barche stanno diventando private. «Durante 8 anni di lavoro in Italia ho messo da parte un po’ di soldi, così mi sono potuto comprare la mia barchetta e sono tornato a casa», dice contento Mouhamed. Tuttavia, Azibo è dovuto andare via dal Senegal a causa delle grandi navi da pesca straniere, che hanno dato un duro colpo alla pesca tradizionale. «Un tempo bastava poco per trovare il pesce buono» – spiega Azibo giocherellando con la rete su cui siamo seduti -, ma oggi bisogna fare parecchie miglia, è molto rischioso e comunque di pesce ce n’è meno. Così sono partito, non riuscivo più a vivere dignitosamente con la pesca».

Quello della pesca industriale è un tema drammatico, come evidenzia l’ultimo report di Greenpeace, che punta il dito contro la Cina e in particolare contro Cncf (China National Fisheries Corporation). Le grandi navi da pesca cinesi sono passate da 13 nel 1985 a più di 600 ai giorni nostri. Il report denuncia un sistematico uso di metodi illegali di pesca, quantità di pescato non registrate, un uso delle reti a strascico che sta devastando la diversità e l’abbondanza di fauna marina. «La cosa che stupisce è il costante uso di due pesi e due misure, quando si tratta di Africa: Europa e Cina nelle loro acque territoriali stanno limitando le pratiche di pesca nocive per l’ambiente, ma in Africa continuano a farne largo uso, afferma Ahmed Diamé un’attivista senegalese di Greenpeace.

IL REPORT DENUNCIA 183 CASI documentati di pratiche non regolari in Gambia, Guinea, Guinea-Bissau, Mauritania, Senegal e Sierra Leone, commessi da imbarcazioni cinesi nei periodi 200-2006 e 2011-2013. Ma nessun governo protesta, anche perché la Cina si sta facendo carico della costruzione di molte infrastrutture. Anche qui in Senegal.

Quanto all’Europa, nel 2015 ha firmato un accordo di 5 anni di pesca «sostenibile» con il governo senegalese. Accordo che nel sito istituzionale della commissione europea sembra avere tutti i crismi del rispetto ambientale, faunistico e per i pescatori locali. Ma la storia è più complessa: il primo accordo di questo tipo è restato in vigore dal 1979 al 2006. Fino agli anni 90 c’era pesce per tutti. Poi intorno agli anni 2000, i pescatori locali iniziarono a notare che per avere del buon pescato bisognava percorrere fino anche a 40 km, con costi non indifferenti. I pescherecci europei stavano iniziando a distruggere i mari senegalesi.

 

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In Senegal il settore ittico impiega 600 mila persone – si pensi che in tutta Europa sono appena 139 mila – dunque è un settore cruciale per l’economia del paese. Così nel 2006 il governo ha sospeso le concessioni di pesca e iniziato nuove negoziazioni con l’Europa. Da gennaio 2015 è entrato in vigore un accordo che porterà nelle casse dello stato senegalese 14 milioni di euro. È previsto un tetto massimo di tonnellate pescabili di tonno e merluzzo, insieme a un programma di investimenti in ricerche oceanografiche senegalesi.

Tuttavia il presidente del Gaipes (Gruppo di armatori e industriali della pesca del Senegal), Adama Lam, intervistato dalla Reuters ha criticato fortemente l’accordo: «Stiamo svendendo le nostre risorse ittiche; tutto ciò equivale ad una ricolonizzazione da parte dell’Ue nel settore ittico». Anche Greenpeace è critica, denunciando la non inclusione delle associazioni dei pescatori locali nelle trattative.

NEL FRATTEMPO, IL MERCATO del pesce di fronte a l’ile de Yoff continua la sua attività, sporco e frenetico come sempre; bambini e ragazzi, ignari di tutto questo, giocano a calcio sulla spiaggia e quando arriva la bassa marea, il bagnasciuga si allarga a dismisura e diventa un enorme tappetone di campi da calcio, a centinaia, uno dopo l’altro per chilometri; le teste dei giocatori diventano puntini all’orizzonte che si muovono veloci. «Non essendoci strutture sportive in città, la spiaggia è la nostra palestra, il nostro campo, è tutto», mi dice un ragazzo tra un calcio piazzato e l’altro. Di fronte all’oceano che tira dritto fino all’America, la spiaggia permette ai ragazzi di uscire dal caos di Dakar e trovare un po’ di pace. Una spiaggia che significa molto per i Lebu di Yoff.

 

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