Lynette Yiadom-Boakye nel 2012, fotografata da Sebastian Kim

 

Che parata affascinante di volti e corpi occupa ancora oggi le sale della Tate Britan, per la mostra di Lynette Yiadom-Boakye Fly in League With The Night, mentre il museo è off limits per le restrizioni pandemiche nella speranza forse di poter accogliere il pubblico dal 17 maggio; e che galleria di visi e pose consegna allora all’impossibile visitatore il catalogo elegante di quella mostra a porte chiuse, fitta di presenze lungo le pareti di ogni sala ma deserta di sguardi che ne ripercorrano le direttrici visive, scovando rispondenze o ricostruendo rimandi, in un percorso concepito per celebrare la carriera consolidata di un’autrice ormai celebre come Lynette Yiadom-Boakye.
Nata a Londra nel 1977 e educatasi in Inghilterra attraverso un curriculum che l’ha vista diplomarsi al Falmouth College of Arts per poi conseguire il Master’s degree alle Royal Academy Schools, la pittrice ha infatti ottenuto una fama transoceanica attraverso esposizioni ed eventi che ne hanno consegnato oeuvre e profilo a una costellazione internazionale di firme riconosciute. Abbrivio per un successo a tal punto conclamato va ritenuta la personale allo Studio Museum di Harlem nel già lontano 2010 (per invito di Thelma Golden e Naomi Beckwith, attualmente chief curator del Guggenheim); un’altra tappa di rilievo è stata poi l’ospitata di culto alla Serpentine Gallery nel 2015, occasione che ha consolidato attorno al suo corpus il patrocinio prestigioso di Hilton Als, candidandola all’inclusione nella rassegna curata dal critico statunitense presso lo Yale Center for British Art di New Haven. Del resto, appena due anni prima la Yiadom-Boakye era entrata nella short list per il Turner Prize, nell’edizione che avrebbe visto vincere Laure Prouvost; nel 2018 si sarebbe invece guadagnata il Carnegie Prize, in concomitanza con l’omonima esposizione di Pittsburgh, prima donna nera ad assicurarsi uno fra i riconoscimenti artistici di più lunga vita per il mondo statunitense (viene assegnato sin dal 1896).
Alla luce di un curriculum così qualificato – che ha previsto perfino un passaggio al coolissimo New Museum – non stupisce quindi che la Tate si sia decisa a onorare la produzione di questa cittadina britannica nata da genitori ghanesi trapiantati a Londra e figlia quindi della diaspora africana che ha mosso, nell’ultima metà del Novecento, una continua immigrazione economica dalle ex-colonie verso il territorio inglese; e che lo faccia con ambizioni miranti a illustrarne l’intera parabola, dagli esordi tradotti soprattutto in tele impostate su toni terrosi e volte a atmosfere fosche, arrivando poi ai risultati recenti, nei quali la tavolozza ha subito uno schiarimento graduale nel confronto con architetture compositive vieppiù articolate e aperte a opzioni di maggiore respiro.
Come messo infatti bene in evidenza dai contributi delle due curatrici – Isabella Maidment e Andrea Schlieker, entrambe nello staff del museo – la Yiadom-Boakye, che ha fatto della fedeltà al genere ‘ritratto’ una delle proprie sigle autoriali, si è data però sin dal 2009 a una sperimentazione aperta, misurandosi con il modello audace della scena di gruppo e adattando di volta in volta il taglio intero della figura o quello di tre quarti a immagini popolose, raramente intergenerazionali, spesso orchestrate attorno all’omogeneità sessuale dei personaggi. Allo stesso tempo, l’artista ha deciso di variare le tinte dei suoi quadri, in particolare modulando gli sfondi bruni delle prove di giovinezza: le silhouette si stagliano dunque, secondo valori discordanti su campiture laboriose, accordate alle gradazioni del bianco, del grigio, del verde e, in alcuni casi, del rosso.
Questa cura della qualità pittorica, traslata poi in uno sprezzato controllo del ductus, è un’altra caratteristica del linguaggio della Yiadom-Boakye, che – pur arricchendo le fonti con il passare degli anni – resta fedele al paragone con un momento seminale per la modernità delle immagini, e cioè il passaggio di secolo trascorso fra la rivoluzione impressionista e la cultura degli eredi del movimento: veri e propri fari gli esiti di Manet, Degas, di un certo Cézanne, ma anche quelli delle loro controparti anglofone, da Whistler a Sickert, passando per Sargent e flirtando pure con l’ispirazione di Thomas Eakins.
In questo senso è anzi un manifesto il King for An Hour del 2011, in cui si impongono alla muscolatura slanciata di un giovane uomo – volto ricorrente nel catalogo della pittrice – le attitudini meditative della ragazza al centro del Déjeuner sur l’herbe: quasi un engramma warburghiano, memore delle tavole di Mnemosyne…
La caparbia preferenza per un linguaggio figurativo allinea d’altronde una simile démarche a quelle di firme che, sulla scena inglese, hanno acceso, sin dagli anni ottanta, un focus vivace sulla creatività al femminile nella comunità afro-caraibica. Pensiamo cioè a Claudette Johnson, Mowbray Odonkor, Sonia Boyce e Barbara Walker (fra le altre), personalità in grado – nel corso degli ultimi decenni – di animare iniziative importanti (pensiamo a The Image Employed, presso la Cornerhouse di Manchester), ritrovandosi al centro di un interesse critico crescente, dallo storico intervento di Chila Kumari Burman There Have Always Been Great Black Women Artists a contributi più attuali, come il saggio di Lubaina Himid Mapping: a Decade of Black Women Artists.
A differenza di tali percorsi, però, il catalogo della Yiadom-Boakye si qualifica per una riflessione discorde sulle poetiche del ‘realismo’ e sul concetto di ‘presente’. I suoi dipinti – pur rispettosi dei formati e della tradizione di uno specifico genere (quello cioè del ritratto) – si costituiscono sempre in quanto immagini finzionali, la cui qualità di invenzione stride semmai con il riaffacciarsi, da quadro a quadro, di revenants ricorrenti; apparizioni fantasmatiche invece che fisionomie familiari, slegate – come tutti i protagonisti delle sue opere – da indici precisi di tempo e spazio, aperte al racconto, anzi disponibili per molti, diversi racconti. Gli uomini, le donne descritti dalla Yiadom-Boakye vivono di un anacronismo inestricabile, che rimanda innanzitutto alla cultura visiva della pittrice e, insieme, alla funzione metalinguistica di ogni creazione d’arte. È vero quindi che esse offrono l’impressione di sottrarsi a un’agenda politica contingente, in contrasto con gli imperativi caratterizzanti sin dagli anni settanta le priorità di molte voci riconducibili alla Black Art fra Inghilterra e Stati Uniti (si pensi a nomi come quello di Keith Piper); e tuttavia è stato a più riprese ribadito quanto la storia travagliata della comunità afro-britannica trovi un’eco diretta nelle scelte formali adottate consapevolmente dall’artista e coerentemente condivise dall’intera sua opera. In questo senso, assume un rilievo cospicuo il gioco costante fra figure e sfondo, organizzato nella ricerca costante di un’efficace intonazione cromatica.
Riscrivendo infatti la nascita della pittura moderna sul colore della pelle che è stato più familiare alla sua esperienza di donna, la Yiadom-Boakye suggerisce una rivoluzione sottile attorno ai nodi del centro visivo, dei margini del quadro e alla scelta ideologica di diapason compositivi. Come dichiarato in un’intervista rilasciata nel 2012 a Jennifer Higgie per la rivista «Frieze»: «Quando viene sollevato il tema del colore della pelle (nelle mie opere, ndr), penso sempre che sarebbe molto più strano se i miei personaggi fossero bianchi; dopotutto sono cresciuta circondata da neri (…). Per me questo sentimento di normalità non è celebrativo, è piuttosto un’idea generalizzata di normalità. È un gesto politico per me: siamo abituati a osservare ritratti di persone bianche».