Pare che fosse stato John Dewey a regalarle la prima macchina per scrivere. Lui era già famoso in tutto il mondo e insegnava alla Columbia. Aveva cinquantotto anni, naturalmente era sposato. Durante una conferenza aveva denunciato con parole molto aspre il pessimo sistema amministrativo del dipartimento della pubblica istruzione di New York. Era il tardo autunno 1917. Lei aveva risalito Manhattan, all’epoca abitava al Greenwich Village, per presentarsi nel suo studio a raccontargli la propria storia di immigrata. Non aveva appuntamento, né si fece annunciare. All’epoca non si chiamava più Hattie Mayer, come l’avevano ribattezzata al suo arrivo nel centro di smistamento di Castle Garden, si era ripresa il nome vero: Anzia Yezierska. Così aveva firmato nel 1915 il primo racconto, La casa-vacanze gratuita, apparso dopo innumerevoli rifiuti sul blasonato mensile «The Forum» e ispirato a una vicenda accaduta alla sorella Helen.

Un diploma in economia domestica
Proprio al Teachers College della Columbia, benché avesse frequentato solo per due anni la scuola primaria, era riuscita a prendere un diploma in economia domestica. Aveva anche seguito qualche corso all’American Academy of Dramatic Arts. Sbarcava il lunario facendo supplenze; prima aveva lavorato come domestica, operaia, cucitrice. Pare che perdesse ogni occasione di trovare un insegnamento stabile per l’aspetto poco curato e niente affatto wasp. Forse anche per il suo accento yinglish, l’americano parlato dagli ebrei dell’Europa orientale. Varcando senza bussare la soglia di un mondo finora precluso, Yezierska sperava che il celebre professore potesse darle una mano a trovare un impiego migliore delle classi precarie che aveva in quel periodo. Dewey incarnò ai suoi occhi un personale sogno americano: l’educazione, la cultura, la sicurezza. Lui fu travolto da quella realtà remota, l’oggetto vero dei suoi studi, che turbinando gli veniva incontro. Dell’oscura supplente ebrea lo affascinò la selvatica energia, la freschezza appassionata, la fiera stravaganza. Anche la massa indomabile dei lunghi capelli rossi. Le chiese di seguire un suo seminario e poi un progetto di ricerca sugli immigrati a Philadelphia. Volle leggere i racconti che aveva composto e ascoltare una delle lezioni di cucina che teneva nelle scuole. Le disse poi che non era tagliata per insegnare. Le disse che nella vita lei doveva scrivere.
La relazione finì malamente nell’estate 1918, forse durante una passeggiata sotto Williamsburg Bridge, forse perché lui tentò di baciarla, forse perché lei si ritrasse. Tutta la biografia di Anzia Yezierska è trapunta di dubbi. La rende più nebulosa il metodico saccheggio che ne ha ossessivamente compiuto nei suoi libri, mescolando alla realtà dei fatti la verità del proprio immaginario narrativo, ripetendo con forma di racconto o di saggio, in prima o in terza persona, una narrazione mai uguale ma simile ogni volta. È incerta la data della sua nascita, un anno intorno al 1880; incerta la città della Polonia russa, Plosk o magari Plinsk, da cui proveniva; incerto il numero dei fratelli, chissà se sette o otto; incerto il tempo, sembra tra il 1890 e il 1892, in cui insieme ai genitori, il padre studioso della Torah, emigrarono tutti per mettersi in salvo dai pogrom. L’unico fatto certo è che non fosse più una ragazzina quando conobbe Dewey, alle spalle aveva due matrimoni falliti e una bambina lasciata al marito per l’impossibilità di mantenerla.
È certo soprattutto che l’incontro con Dewey, se anche non fu quel ponte capace come sognava di allacciare il passato e il presente della sua esistenza, il vecchio e il nuovo spazio della sua storia, restò per quanto breve un evento destinato a lasciare una traccia incandescente dentro di lei. L’uomo che l’aiutò a credere in se stessa diventerà nella sua opera il modello perfetto del salvatore americano. Con il nome di John Barnes, ma ne indosserà anche altri, irrompe a illuminare la vita buia di Shenah Pessah nel racconto d’apertura della sua raccolta d’esordio, pubblicata nel 1920 e ora proposta per la prima volta in italiano da Mattioli 1885 con l’immutato, splendidamente allusivo titolo Cuori affamati («Classici», a cura di Livio Crescenzi e Marta Viazzoli, pp. 177, € 16,00). È un sogno molto più radioso di un miraggio d’amore il fuoco che il giovane sociologo accende nel cuore vorace della protagonista: «Più nera e più opprimente era la bruttezza della sua prigione, più luminosa diventava la luce dello sconosciuto che, come per miracolo, s’era fermato un momento a parlare con lei. Era come se, nell’oscurità di una caverna, i cieli si fossero aperti e le speranze taciute avessero iniziato a cantare». L’inquietudine che Shenah spartisce con la propria autrice non è che una fame disperata di parole.

Ripudiò il film tratto dal libro
L’aspirazione alla cultura, la necessità della bellezza, il desiderio di un linguaggio comune per esprimersi uniscono i dieci racconti di Cuori affamati più saldamente di quella cupidigia di cibo che ne appare in superficie il tema principale. Il metaforico, martellante confronto tra luce e oscurità che attraversa l’intero libro non allude soltanto alla miseria materiale dentro cui sono condannati a sopravvivere gli immigrati ebrei del Lower East Side, ma soprattutto allo spaesamento esistenziale, alla buia costrizione interiore in cui si dibattono perché costretti a restare esiliati. Dallo squallido sottoscala in cui abita Shenah alla biblioteca luccicante di lampade dove la conduce John Barnes, dal soffocante laboratorio di camicette in cui lavora Sara Reisel alla cucina ridipinta di bianco da Hanneh Hayyeh, dal maleodorante seminterrato affittato da Sophie Sapinsky al chiarore delle aule in cui fanno lezione Miss Van Nees e Miss Latham, il libro tesse la comune vicenda di un ostinato, malcerto anelito a un’uscita dal buio. Non sono che un trucco la mimetica ripetizione dei caratteri, la lingua intenzionalmente selvatica, la tonalità sentimentale dello stile, la spesso rudimentale architettura dei racconti. Quella vernice di realismo bastò a incantare Hollywood e a creare la leggenda dell’autrice nata cenerentola. Lei ripudiò il film a lieto fine che fu tratto dal volume e fuggì nauseata lo scintillio degli studios rientrando a New York, dove sperperò in poco tempo i diecimila dollari che aveva guadagnato.
Scrisse ancora una raccolta di racconti e tre romanzi, tra cui il suo capolavoro Bread Givers (1925), le riuscì di tenersi stretto il successo ancora per qualche anno ma con l’infittirsi della Depressione precipitò nel buio. Morirà povera, continuando a pubblicare articoli e recensioni sui giornali, in una casa di riposo vicino Los Angeles nel 1970. Era riuscita a trovare la luce che voleva? «Tutto quello che avrei mai potuto essere, il lampo di verità che mi sforzavo di cercare ovunque, era dentro me stessa», confesserà nell’ultima opera, la molto romanzata autobiografia Red Ribbon on a White Horse (1950), subito concludendo: «Oggi la consapevolezza di mille fallimenti non può impedirmi di riconoscere questa luce nata dalla mia oscurità, qui, adesso». La vera storia che aveva inteso raccontare, quella ripetuta con ostinazione in ogni pagina fino a renderla splendente, era la famelica avventura di una determinazione femminile, la ricerca selvaggia di un’identità, il percorso impervio dell’autonomia e della ribellione a un futuro disegnato per le donne dall’autorità dei maschi, siano professori wasp o maestri della Torah. La narrazione di un destino che per compiersi non ha bisogno di essere salvato da nessuno.