Nata a Barbados nel 1980 da madre caraibica e padre nigeriano, Yewande Omotoso si è trasferita in Sudafrica a dodici anni nel 1992 (dopo aver trascorso l’infanzia in Nigeria). La signora della porta accanto è il suo secondo romanzo (primo a essere tradotto in Italia, per 66thand2nd, pp.249, euro 16) in cui si narra di due vedove ultraottentenni, una bianca e una nera, che vivono nello stesso vicinato a Cape Town e sono costrette a una convivenza forzata dopo essersi detestate per tutta la vita.
Dopo un tour di presentazioni italiane del suo libro, l’autrice sarà al Salone di Torino oggi, all’Arena Piemonte (ore 16,30), in dialogo con Elena Varvello.

Il suo romanzo affronta tematiche di genere: le due protagoniste sono donne di successo, una architetta e l’altra designer, che hanno guadagnato un loro spazio nella società sudafricana e che si avvicinano l’un l’altra per un evento imprevisto. L’emancipazione femminile è uno dei suoi temi principali: in che modo le donne possono giocare un ruolo importante nella ricostruzione di società ferite come quella nigeriana e sudafricana?
Quello dell’emancipazione femminile sia un tema troppo vasto e generale perché si possa applicare a questa storia. Ovviamente si parla di lotta contro varie forme di reclusione e limitazione, incluse le restrizioni patriarcali, ma non è solo questo. Il termine «emancipazione femminile» sembra implicare un senso di vittoria e mi pare che La signora della porta accanto sia più che altro la narrazione di piccole conquiste, molte perdite, tristezza, rammarico e cauta speranza. Raramente scrivo narrativa con l’intenzione di trasmettere un messaggio. Temo che scrivere con questa intenzione strangoli potenzialmente il magnifico meccanismo racchiuso nelle narrazioni, un meccanismo che dischiude più saggezza di quanta si possa premeditare. Naturalmente, spero (e scrivo con l’intenzione) che la storia dischiuda una varietà di cose: messaggi sorprendenti, piacere, confusione, opportunità di contemplazione e così via. Inizio con un’ossessione o l’altra, vergogna, amore, desiderio, spesso con diverse ossessioni insieme. Il processo della scrittura è una sorta di sviluppo e scoperta. Il mio processo consiste nell’andare in profondità nelle vite dei personaggi per arrivare alla compassione. Le nostre società, in tutto il mondo, sono ferite: è una condizione umana. Non ho alcun punto di osservazione privilegiato da cui dichiarare il ruolo di questa o quella persona nel guarire noi stessi e il nostro mondo. C’è ancora molto lavoro da fare.

«La signora della porta accanto» racconta di (una specie di) amicizia o comunque co-abitazione dopo anni di odio e pregiudizio. Potremmo leggerla come la parabola del popolo e della nazione sudafricana?
La relazione tra Marion e Hortensia non è data da affinità ma da ostilità, sospetto e risentimento, è una relazione a cui si arriva da uno spazio di rassegnazione e non tramite un desiderio di connessione. Tuttavia non ho scritto la storia come una parabola, è un racconto molto domestico di due opposti costretti a un’intimità, come un microcosmo di questioni più ampie incluse la diversità e la riconciliazione. Una questione che non è specifica solo del Sudafrica o della Nigeria ma presente ovunque e che ci riguarda da vicino in quanto esseri umani. Sono sempre interessata alla sfera domestica perché credo che in essa sia contenuta ogni cosa: guerra, amore, potere, odio, governo, pregiudizio, desiderio e così via.

Nel romanzo ci sono delle sottotracce e si accenna anche a schiavitù e colonialismo…
La letteratura per me è senz’altro un luogo da cui attingere insegnamenti, ne ho tratti così tanti leggendo, spesso involontari, che farei fatica a elencarli. La mia stessa scrittura ha origini molteplici, è difficile separare le fibre dell’immaginazione e capire pienamente da dove scaturisca. Tuttavia so che la mia scrittura non è disconnessa da questioni vitali, come la storia e il potere e in questo senso è possibile che il romanzo contenga ogni sorta di suggestione e insegnamento. In particolare per quanto concerne schiavitù e colonialismo, finché non capiremo che lo sforzo per superarli e guarire le ferite dovrebbe essere globale e non solo legato al continente africano, non potremo di certo andare lontani.

Nel libro, un evento inatteso modifica lo svolgimento della trama e il destino dei suoi personaggi: come possono il fato e la casualità influenzare vite individuali o il destino di un paese?
Come esseri umani in circostanze specifiche viviamo spesso nel mito della certezza. Fare piani ne è un esempio. Siamo stretti in una morsa perché la natura della vita urbana contemporanea ci costringe a pianificare, a operare all’interno della certezza che le strutture della nostra esistenza odierna prevarranno anche domani e dopodomani. Ciò significa che quando qualcosa di «inaspettato» accade sia un vero fardello per noi. Se vivessimo in maniera opposta, senza fare piani, assumendo che le cose siano in continuo mutamento, avremmo una diversa percezione dell’«imprevisto». Ne La signora della porta accanto due donne che si odiano si trovano ad aver bisogno l’una dell’altra. Nessuna delle due aveva sin dall’inizio alcuna intenzione di cambiare: avevo bisogno di introdurre un intervento esterno. Gli eventi imprevisti sono generati dalle loro azioni, ma era necessario forzarle a confrontarsi con i loro limiti. L’umanità è testarda e, come l’inerzia, tende a stare ferma o a spostarsi nella stessa direzione se non forzata da interventi esterni. Noi possiamo agire sulla vita e la vita può agire su di noi, questo è quello che chiamiamo l’«imprevisto» e ne siamo costantemente influenzati. La questione è come noi ce ne lasciamo influenzare, come rispondiamo, resistiamo, progrediamo, torniamo indietro, l’atteggiamento che assumiamo nei confronti delle incertezze esistenziali.

Lei ha scritto due romanzi, è anche una poeta: che ruolo giocano lingua e immaginazione nella sua opera?
La lingua per me è importante quanto la storia. Una grande storia raccontata malamente è una pillola amara da ingoiare. Per via della grazia che la lingua può fornire non esistono storie cattive ma solo storie raccontate senza il senso estetico della lingua che è inseparabile dal messaggio stesso e può, a volte, contenere anche l’intero messaggio. Spero per questo di rimanere sempre una «studentessa della lingua». L’inglese è il mio primo idioma, vivo in un paese con 11 lingue ufficiali e con persone che ne parlano diverse contemporaneamente. Studio yoruba, che è la mia «lingua-padre» e una delle gioie della lingua è che se ne imparano sempre le regole, anche quando si lavora per infrangerle.

Quanto è importante l’ironia nella sua scrittura?
Penso che l’incongruità sia un magnifico meccanismo attraverso il quale investigare gli aspetti della condizione umana, dell’essere vivi e co-esistere con gli altri. Non disconnessi da ciò sono il mio interesse e la mia fascinazione per l’estetica del dubbio. La certezza ha una sua importanza ovviamente, vogliamo che il conducente di un autobus conosca molto bene le regole della strada e che il chirurgo conosca alla perfezione l’anatomia del corpo umano. Eppure, ci sono altri momenti dell’esperienza umana dove il dubbio, l’incongruità e l’ironia sono incredibilmente istruttive. Lo sono perché molte certezze si possono perdere, soprattutto in relazione a quello che siamo sicuri di conoscere e alla giustezza delle nostre opinioni e convinzioni. Questo avvia un viaggio di continua scoperta e riscoperta.

È nata a Barbados e cresciuta in Nigeria: che influenza hanno avuto, e hanno oggi per lei e per la sua scrittura, le culture yoruba e caraibica?
Mia madre era di Barbados e mio padre è nigeriano. Dall’età di 12 anni e fino a oggi ho vissuto in Sudafrica. Sono profondamente influenzata da questi tre luoghi che chiamo «casa». Al di là dei dettagli di queste culture che hanno dato forma alla mia vita, pensieri e conoscenze, la forma migrante della mia esistenza influenza largamente il mio scrivere. Nelle mie opere c’è di solito una tensione tra esterno e interno, un’attenzione ai multipli, siamo molto raramente una sola cosa in un solo luogo.

Viviamo in un’era di migrazioni di massa e di identità culturali multiple, che vengono percepite come minaccia (di invasione, contaminazione, perdita di purezza…) o ricchezza per il futuro delle nostre società…
In generale, riguardo alle migrazioni, questa nostra epoca non è diversa dalle precedenti. La migrazione è una costante dell’esperienza umana, sia essa forzata (e quindi implicitamente violenta), o volontaria e privilegiata. Va tenuta in considerazione la nozione di «potere». Se si parla oggi di «invasione, contaminazione e perdita di purezza», queste idee andrebbero applicate anche al colonialismo, ma c’è un doppio standard nella valutazione di questi fenomeni. La realtà è che quasi nulla avviene in un vuoto, la condizione del mondo oggi è solo un momento in una lunga serie di «effetto-domino». La migrazione è motivata e molto raramente avviene in maniera isolata. In termini di impatto, bisogna indagare le tensioni tra «minaccia» e «ricchezza», e dovremmo dotarci di conoscenza e compassione.